Capire la filosofia




(pagine 29-51)

PLATONE


Platone (Atene 427-347 a.C.) è stato, con Aristotele e con Kant, il più grande filosofo di tutti i tempi (52) .
Egli fu allievo di Socrate per otto anni, ma conobbe a fondo anche la filosofia di Pitagora, di Parmenide e di Eraclito. Nel 387 a.C. fondò ad Atene, nel giardino dedicato all’eroe Accademo, la sua scuola che prese perciò il nome di Accademia.
Platone espose le sue teorie filosofiche nei famosi “Dialoghi”, nei quali egli dimostra di essere anche un grande scrittore. Egli pose come protagonista di molti suoi Dialoghi il proprio maestro Socrate. I Dialoghi sono ricchi di una specie di parabole, dette “miti”, con le quali Platone cerca di semplificare i suoi complessi concetti filosofici. I Dialoghi più famosi sono: Menone, Fedone, Repubblica, Convito, Fedro, Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Timeo, Leggi.

Platone, criticando duramente i sofisti, afferma che esiste una verità assoluta e che è possibile un sapere oggettivo, corrispondente alla realtà.
Egli si propone quindi di studiare la vera essenza della realtà e di dimostrare come l’uomo possa giungere a conoscere tale struttura dell’essere, al di là di ciò che percepiamo con i sensi. Per fare ciò, Platone elabora una complessa costruzione metafisica (53) che è divenuta famosa col nome di “teoria delle idee”.


La teoria delle idee

Platone afferma che esiste un mondo che si trova al di sopra del cielo e che egli chiama iperuranio (da: iper = sopra e uranio = cielo). Nell’iperuranio si trovano le idee (= forme, strutture), che sono le strutture costitutive della realtà sovrasensibile; esse sono eterne. Perciò l’iperuranio si chiama anche mondo delle idee.
Quando Dio (che Platone chiama “demiurgo”, cioè artefice) plasmò (54) la materia informe costruendo il mondo, lo fece guardando le idee e formò le cose a immagine di esse. Le idee sono dunque anche i modelli delle cose della natura; e queste ultime sono copie delle idee.
Nell’iperuranio si trovano le “idee” di tutte le cose della realtà e di tutti i nostri concetti: l’idea del gatto, del cavallo, del bene (che è l’idea suprema ed è causa delle altre idee), del bello, del giusto, ecc.; mentre nella nostra vita quotidiana percepiamo i singoli gatti, cavalli, azioni buone, cose belle, comportamenti giusti, ecc. L’idea è unica, le realizzazioni pratiche sono molteplici: per esempio, l’”idea” del gatto è unica e perfetta, i singoli gatti sono numerosi e imperfetti; l’idea di gatto è sempre identica e perciò eterna, invece il singolo gatto nasce, cresce, si modifica, muore.
Poi il demiurgo plasmò le anime degli uomini e le pose nell’iperuranio. Quando viene generato il corpo di un essere umano, l’anima viene posta in esso. Se quell’essere umano vivrà onestamente, alla sua morte l’anima, che è immortale in quanto simile alle idee, tornerà nell’iperuranio.


Platone risolve il problema di essere e non-essere, uno e molteplice, immobile e diveniente. Esistenza del non-essere.


Con la teoria delle idee Platone risolve il controverso problema se la realtà sia una e immobile, come affermava Parmenide, o diveniente come sosteneva Eraclito e molteplice come ci suggeriscono i nostri sensi che ci mostrano innumerevoli oggetti e continue trasformazioni e movimento.
Platone afferma che la realtà sovrasensibile, cioè il mondo delle idee, è immutabile ed eterna; invece le realizzazioni pratiche, cioè le cose di cui abbiamo esperienza, sono mutevoli; che ogni singola idea è unica, mentre gli oggetti corrispondenti a un’idea sono molti.
Il problema di come una unica idea possa essere partecipata da più oggetti senza che essa debba essere divisa o moltiplicata o separata da se stessa, è chiarito dal paragone dell’idea con la luce del sole che illumina tutti gli oggetti: “… come la luce del giorno, benché una e medesima, è in molti luoghi, e non per questo è separata da sé medesima” (55).
Successivamente Platone cerca di risolvere anche il problema del non-essere. Egli afferma che “il non essere, se inteso non come contrario dell’essere, bensì come diverso dall’essere, può esistere” (56).
Così Platone supera l’affermazione paradossale di Parmenide secondo il quale gli aspetti della realtà che percepiamo non esisterebbero perché, essendo molteplici e modificabili, non sono l’essere e quindi sono non-essere. Con Platone queste molteplici manifestazioni “sono”, cioè esistono, in modo “diverso” dall’essere, cioè dall’idea. Più precisamente, esse esistono fino a quando partecipano di una idea, non sono più quando non riescono più a partecipare dell’idea. Quindi le idee sono l’“essere”; le cose sensibili esistono, ma in modo “diverso” dall’”essere”.


La teoria della conoscenza


Poiché la nostra anima proviene dallo stesso mondo sovrasensibile cui appartengono le idee, essa ha conosciuto le idee, che sono dunque anche i concetti della nostra men-te. Allora noi possediamo fin dalla nascita la conoscenza della verità; questa conoscenza è quindi innata in noi: questa concezione si chiama innatismo. Abbiamo appreso le nozioni conformi alla verità quando la nostra anima viveva nell’iperuranio, prima di entrare nel nostro corpo, “durante il tempo in cui non eravamo uomini” (57).
Le abbiamo però dimenticate; possiamo farle tornare alla coscienza per una sorta di “ricordo” che Platone chiama “reminiscenza” (in greco: anàmnesi). Perciò Socrate, maestro di Platone, poteva rievocarle con la maieutica, come fa nel dialogo “Menone”.
Platone afferma che l’anima umana, provenendo dallo stesso mondo delle idee, può avere conoscenza (epistéme) delle idee; invece degli oggetti e delle azioni che percepiamo quotidianamente può avere soltanto una opinione (do-xa). Così la conoscenza riguarda la bellezza in sé e l’idea del gatto che si trovano nell’iperuranio, l’opinione riguarda le singole cose belle e l’aspetto dei singoli gatti. Secondo Platone la conoscenza è infallibile, invece l’opinione può essere errata.
Nel dialogo “Teeteto” Platone, in polemica con Protagora, afferma che la conoscenza non può coincidere con la sensazione, ma che la vera conoscenza (o epistéme) risiede invece nei concetti: “Non è dunque nelle impressioni che sta la scienza, ma nel ragionamento su di esse: è in questo campo che è possibile raggiungere l’essere e la verità, mentre nell’altro è impossibile” (58). Egli sottolinea che alcune delle nostre conoscenze non sono dovute a organi di senso: non vi è alcun organo di senso per concetti come “l’esistenza e la non-esistenza, la somiglianza e la dissimiglianza, l’uguaglianza e la differenza, l’unità e i numeri... La mente coglie alcune cose coi propri mezzi, altre le percepisce con le facoltà corporee” (59) .


Il mito della caverna


Per semplificare la teoria delle idee e della conoscenza, Platone la presentò anche sotto forma di un mito, il famoso “mito della caverna”, contenuto nel 7° libro della “Repubblica”. In esso si immagina che gli uomini si trovino in una caverna, incatenati in modo da poter guardare solo verso il fondo della caverna, sul quale vengono proiettati - dalla luce di un fuoco che si trova all’esterno della caverna - le ombre di statue che si trovano davanti all’entrata della caverna. La maggior parte dei prigionieri pensa che le ombre rappresentino la realtà: allo stesso modo la maggior parte degli uomini crede che tutta la realtà sia costituita dalle cose che percepiamo con i sensi. Ma il filosofo, capace di liberarsi dalle catene dei sensi e dell’ignoranza, guarda in faccia la luce e conosce la vera realtà, cioè le idee: “prima vedeva solo apparenze vane mentre ora può vedere meglio, perché il suo sguardo è più vicino all’essere” (60) .


La dialettica

Platone chiama “dialettica” (dal greco: dialèghein = discutere) l’arte – che egli ritiene somma – praticata da Socrate, che, mediante la discussione tra più interlocutori, permette di salire di proposizione in proposizione, di concetto in concetto, alle verità più generali, ai principii, cioè alle idee.


La teoria dell’immortalità dell’anima


Nel dialogo “Fedone” Socrate, poco prima di bere la cicuta, si dice certo dell’immortalità dell’anima. La morte, dice Socrate, è la separazione dell’anima dal corpo. Già dalla teoria della reminiscenza sappiamo che l’anima esisteva, già prima di entrare nel corpo, nel mondo delle idee. Il contatto con gli enti corporei e col corpo stesso è una sofferenza per l’anima; la morte è quindi per essa una liberazione, è il ritorno verso il mondo a lei più simile, che è il mondo delle idee. L’anima non può morire col corpo, perché è completamente diversa da esso: il corpo è fatto di materia, invece l’anima è simile alle idee, e perciò è eterna.
Alla fine del dialogo si apre la visione grandiosa dell’al di là, dove le anime giungono dopo la morte del corpo passando attraverso un giudizio. Coloro che commisero colpe gravissime vengono precipitati nel Tartaro per sempre; quelli che commisero peccati meno gravi o che si pentirono e poi vissero bene vengono anch’essi precipitati nel Tartaro, ma possono successivamente uscirne se vengono perdonati dalle anime a cui arrecarono danno; quelli che non sono vissuti né bene né male restano nella palude Acherusia; quelli che vissero santamente, soprattutto se dediti alla filosofia, sono liberati dai luoghi sotterranei e giungono in un luogo di eterna beatitudine.


La teoria dell’amore


Dunque l’anima umana tende a salire verso le idee. Questa attrazione verso le idee è un vero e proprio amore ed è stato definito “amore platonico”.
Nel dialogo “Convito” Socrate afferma che dalla bellezza dei corpi bisogna giungere all’idea della bellezza e amare l’idea più delle sue manifestazioni terrene: “si comincia dalle cose belle di quaggiù e, tratti dall’amore della bellezza, si sale come per una scala da un corpo bello a due, e da due a tutti, da tutti i corpi belli alle belle istituzioni, e dalle belle istituzioni alle belle scienze, finché si pervenga alla conoscenza della stessa bellezza” (61) , cioè all’idea della bellezza, esemplare perfetto, immutabile ed eterno. Così l’amore, innalzandosi fino all’idea, consente il passaggio dall’ignoranza alla scienza.


L’anima umana

Nel dialogo “Fedro” Platone afferma che l’anima umana è “distinta in tre parti, due aventi forma di cavallo e la terza di auriga” (62) . La paragona dunque ad un cocchio alato, guidato da un auriga che rappresenta la ragione, e trainato da due cavalli, uno buono e bello che tende verso il cielo, e uno cattivo e brutto che tende verso la terra. L’auriga deve essere in grado di dominare i cavalli e di guidare così il cocchio verso l’alto, cioè verso il mondo delle idee.
Quindi, mentre Socrate sosteneva che l’uomo per raggiungere la virtù deve solo seguire i dettami della sapienza, Platone ritiene che l’anima umana sia costituita da tre componenti, quella razionale (l’auriga), quella dell’emotività, dell’ira e dello sdegno (“anima irascibile”, simbolizzata dal cavallo buono) e quella degli istinti e dei desideri dei sensi (“anima concupiscente”, rappresentata dal cavallo cattivo) e che l’uomo debba essere in grado di coordinare queste tre componenti, impedendo in ogni occasione alle due facoltà inferiori (quella dell’emotività e quella dei desideri dei sensi) di sovrastare quella superiore (della ragione), che deve imbrigliarle e guidarle come un valido auriga dirige i cavalli.


La politica


Nel dialogo “Repubblica” Platone afferma che il fine sia del singolo individuo che dello Stato deve essere il conseguimento della giustizia. Poi sostiene che lo Stato deve essere costituito, come l’anima umana, da tre componenti: la classe dei filosofi, che rappresenta la parte razionale, deve governare lo Stato; la classe dei guerrieri, che rappresenta la parte “irascibile”, deve difendere lo Stato dai nemici esterni; la classe degli artigiani, che rappresenta la parte “concupiscente”, deve produrre i beni e quindi occuparsi delle necessità materiali dei cittadini. Quindi lo Stato ideale delineato da Platone è governato dai filosofi, cioè dai sapienti, che sono i migliori (in greco: “àristoi”).
Essendosi reso conto che lo Stato ideale, governato dai filosofi, è difficilmente realizzabile, Platone nel dialogo “Politico” delinea 6 tipi possibili di costituzione. Egli afferma che il potere può essere di uno solo, può essere di pochi o può esse-re di molti. A seconda che vi sia rispetto delle leggi oppure no da parte di chi governa, il potere di uno solo sarà rispettivamente monarchia o tirannide, il potere di pochi sarà aristocrazia o oligarchia; per quanto riguarda la democrazia, sia che la moltitudine tenga il potere con la violenza, sia che lo possegga con libera accettazione da parte di tutti e nel rispetto delle leggi, essa si chiama comunque democrazia.
Platone ritiene che la costituzione migliore di tutte – se non consideriamo il governo perfetto dei filosofi indicato nella “Repubblica” – sia la monarchia, se affiancata da buone leggi; e che la peggiore sia la tirannide. Tra i governi privi di leggi il migliore è la democrazia, perché almeno il potere è suddiviso tra molti.
Nel suo ultimo dialogo “Le leggi” Platone afferma che le leggi devono educare i cittadini a comportamenti corretti e che il loro fondamento principale deve essere costituito dalla religione. L’istruzione deve essere obbligatoria sia per i maschi che per le femmine, e le discipline che devono essere apprese sono: letteratura, matematica, geometria, astronomia, musica, ginnastica.



ARISTOTELE


Come già detto, Aristotele (Stagira, nella penisola calcidica, 384 a.C. - Calcide, nell’isola di Eubea, 322 a.C.) è stato uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi (63) .
Figlio del medico del re di Macedonia, fu educatore di Alessandro Magno. Fu allievo di Platone dal 366 al 347 a.C. Nel 334 fondò ad Ate-ne la propria scuola che prese il nome di “scuola peripatetica” (dal greco: perì patein = passeggiare intorno) perché l’insegnamento veniva tenuto passeggiando per i viali del giardino dedicato ad Apollo Licio (da cui l’altro nome, Liceo).
Aristotele studiò tutte le branche dello scibile e scrisse opere di logica (“Analitici primi”, “Analitici secondi”, “Categorie”, ecc.), di fisica (“Fisica”, “De coelo”) e scienze naturali, di biologia e psicologia (“De anima”), di “filosofia prima” (64) (“Metafisica”), di etica (“Etica Nicomachea”, ecc.), di politica (“La politica”), di retorica e di poetica.


La metafisica


Dalle “idee” di Platone alle “forme” di Aristotele. Materia e forma.

Aristotele sottopone ad una critica serrata la teoria delle idee di Platone. Egli afferma che le idee non esistono come sostanze separate dalla realtà sensibile; che il mondo delle idee è un inutile doppione del mondo sensibile; che le idee, se sono sostanze delle cose, non possono esistere separatamente dalle cose. Quindi Aristotele rimprovera a Platone di aver separato le idee dalle cose. Egli afferma infatti che le essenze delle cose (che Platone chiamava idee e che egli chiama “forme”) non si trovano separate dalle cose, nell’iperuranio, bensì sono intimamente connesse con la materia che costituisce gli oggetti.
Dunque le cose, cioè le singole “sostanze”, sono costituite da una “forma” che ne è il principio animatore e da una “materia” che ne è il substrato. Per esempio, nel caso dell’uomo, la forma è l’anima e la materia è il corpo; nel caso di una statua di marmo, la materia è il marmo e la forma è la figura fatta dallo scultore. Se con il bronzo costruiamo una sfera, il bronzo è la materia, e la sfera, cioè la figura che ha tutti i punti equidistanti dal centro, è la forma.
La forma o essenza è la causa dell’essere di una cosa; è condizione della generazione e del divenire delle cose, ma essa è ingenerabile e non diveniente. La materia invece è il substrato che si trasforma; essa diviene le varie cose in virtù della forma che la caratterizza e la determina.
Per esempio, nel caso della sfera di bronzo, il bronzo può essere distrutto o trasformato, ma la sfera come figura geometrica applicabile al bronzo rimane. Così, nel caso dell’uomo, il corpo invecchia trasformandosi da giovane in vecchio, da agile in lento, da sano in malato, talvolta fino alla perdita della consapevolezza di se stesso e dell’ambiente in cui si trova, ma l’anima lo caratterizza sempre come uomo.

Le forme di Aristotele, diversamente dalle idee di Platone, esistono nelle cose e non al di fuori di esse e non sono sostanze sussistenti per sé, bensì esistono solo in quanto prendono corpo in una materia. Nella sua severa critica a Platone, Aristotele dimentica però che la sua teoria della forma deriva, anche se con originali modifiche, dalla dottrina delle idee.
Quindi il principio e causa dell’essere, cioè della realtà - che per Talete era l’acqua, per Anassimandro l’infinito, per Anassimene l’aria, per Eraclito il fuoco, per i Pitagorici il numero, per Parmenide l’essere stesso, per Empedocle i quattro elementi, per Anassagora le omeomerìe e l’intelletto, per Leucippo e Democrito gli atomi, per Platone le idee - per Aristotele è la sostanza, e, nell’ambito della sostanza, più specificamente la forma.


Sostanza e accidenti

Dopo aver approfondito i concetti di materia e di forma, Aristotele esamina quelli di sostanza e di accidente.
La sostanza, che è dunque unione di materia e forma, è ciò che esiste di per sé e non ha bisogno di altro cui appoggiarsi per esistere.
Gli aspetti che la sostanza assume sono denominati da Aristotele “accidenti”: essi non esistono di per sé, ma hanno bisogno – per esistere – di appoggiarsi alla sostanza. “Accidente significa ciò che appartiene ad una cosa e che può essere affermato con verità della cosa, ma non sempre né per lo più… L’accidente è prodotto ed esiste non per se stesso ma per altro” (65) .
Se per esempio affermiamo che Socrate è uomo, l’essere uomo è sostanza: infatti, sia quando è giovane che quando è vecchio, sia quando è adirato che quando è calmo, sia quando è pallido che quando è colorito, se pensiamo a Socrate, pensiamo sempre che è uomo.
Se invece diciamo che Socrate è pallido, l’essere pallido è un accidente, perché non esprime una proprietà essenziale e costante di Socrate.


Potenza e atto

Per spiegare il divenire degli enti esistenti, cioè delle sostanze, Aristotele introduce i concetti di potenza e di atto. La potenza è la potenzialità della materia a divenire un essere determinato, l’atto è la condizione dell’essere pienamente realizzato. Per esempio il seme contiene la pianta in potenza, la pianta è il seme divenuto atto; l’uovo di gallina è in potenza un pulcino, il pulcino è l’uovo divenuto atto; il legno è armadio in potenza.

La materia è il substrato del mutamento; la forma è ciò a cui il mutamento tende; ciò che si genera è il composto di materia e forma.
“In atto è la forma, e anche l’insieme di materia e forma…; in potenza invece è la materia: essa costituisce infatti ciò che ha possibilità di divenire” (66) .
“Casa in potenza è pietra, mattoni e legno, perché tutte queste cose sono materia; casa come rifugio per proteggere cose e corpi è l’atto della casa; unendo le due definizioni si ha la sostanza, cioè il composto di materia e forma” (67) .
Dunque, la materia è potenza, la forma è atto.

Quindi in Aristotele il divenire non è più, come in Parmenide, il drammatico ed impossibile passaggio dal non-essere all’essere, bensì il più naturale passaggio da un essere in potenza ad un essere in atto.


Le quattro cause

Per far passare un ente dalla potenza all’atto intervengono quattro cause: 1) la causa materiale, che è la materia che deve trasformarsi; 2) la causa formale, che è la forma che rende attualizzata la materia; 3) la causa efficiente, che determina il passaggio da potenza ad atto; 4) la causa finale, che è il fine di tale trasformazione.
Nel caso della statua, la causa materiale è il marmo, la causa formale è la figura che l’artista intende rappresentare, la causa efficiente è lo scultore, la causa finale è l’obiettivo che lo scultore si prefigge.
Nel caso della casa, la causa materiale è rappresentata dai mattoni e dalla calce, la causa formale è la forma della casa che è nella mente dell’architetto, la causa efficiente o motrice è il costruttore, la causa finale è l’opera costruita (68) .


La Teologia

Dopo aver esaminato le sostanze sensibili, la loro composizione, le loro trasformazioni e le loro cause, Aristotele dimostra che esiste necessariamente una sostanza soprasensibile eterna ed immobile.
Tutte le sostanze che contengono materia si muovono e si trasformano, passando dalla potenza all’atto. Ciò avviene ad opera di una causa efficiente. Ma anche questa causa efficiente, per passare dalla potenza all’atto, necessita a sua volta di una causa efficiente, e così via.
La sostanza eterna e soprasensibile, che determina il movimento e la trasformazione delle altre sostanze senza muoversi né trasformarsi, è invece in atto senza essere stata in potenza: è cioè un “atto puro”, privo di materia, immutabile ed eterno. Questa causa prima motrice ed efficiente, questo atto puro, è Dio. Dio è sostanza eterna e separata dalle cose sensibili, è incorporeo, senza parti e indivisibile, è inalterabile e immobile. Egli è il “primo motore immobile”, che fa muovere il mondo ma non si muove; il movimento dei cieli e dei pianeti, benché perfetto, non è autoproducentesi, ma ha bisogno di questa causa che lo determini.

“Come potrebbe prodursi movimento, se non esistesse una causa in atto? Non certo la materia può muovere sé medesima… Nulla infatti si muove a caso, ma deve sempre esserci una causa” (69). “Deve esserci, per conseguenza, qualcosa che muova senza essere mosso e che sia sostanza eterna ed atto” (70).

L’attività di Dio è quella suprema, che è quella del pensiero. Egli pensa ciò che è più divino e più degno di onore, cioè ciò che non muta, cioè se stesso. Quindi Dio è pensiero che pensa se stesso, cioè è “pensiero di pensiero”.

“Questo è un essere che esiste di necessità... Da un tale Principio dipendono il cielo e la natura. Ed il suo modo di vivere è il più eccellente… e l’attività contemplativa è ciò che c’è di più piacevole e di più eccellente… Dio è vivente, eterno ed ottimo” (71).
“Se, dunque, l’Intelligenza divina è ciò che c’è di più eccellente, pensa se stessa e il suo pensiero è pensiero di pensiero” (72).
Pertanto, secondo Aristotele, se l’essere è la sostanza e tutte le sostanze esistenti sono esseri perché la forma si imprime alla loro mate-ria (come abbiamo visto a pagina 40), l’Essere per eccellenza è Dio, che è Sostanza priva di materia e quindi Atto puro senza precedente potenzialità, che esiste “di necessità” e determina l’ordine ed il movimento del mondo sensibile.
Dunque anche in Aristotele, come già in Platone, Dio non crea il mondo. In Platone il Demiurgo plasma la materia già esistente. In Aristotele Dio ordina l’universo e determina in esso il movimento (73).


L’anima


Aristotele afferma che il corpo ha la vita in potenza, ma è l’anima che attualizza questa potenzialità. La sostanza dell’essere vivente è costituita dal corpo, che è materia, e dall’anima, che è forma: “l’anima è forma di un corpo che ha la vita in potenza… pertanto l’anima è atto del corpo” (74); “L’anima è la causa e il principio del corpo vivente… L’essenza è per tutte le cose la causa del loro essere, e l’essere per i viventi è il vivere, e causa e principio del vivere è l’anima” (75).

Secondo Aristotele l’anima è costituita da tre componenti: al livello più basso si trovano le funzioni nutritiva e generativa, che sono comuni a tutti gli esseri viventi, incluse le piante; al livello intermedio le funzioni sensitiva, dei desiderî e motrice, che sono caratteristiche degli animali e dell’uomo; al livello più alto si trova l’intelletto, posseduto solo dall’uomo, separabile dal corpo, non soggetto a passioni, che può cogliere gli universali, cioè i concetti, cioè l’essenza delle cose. Solo l’intelletto, e non l’anima nel suo complesso, è immortale.


L’etica


Aristotele si chiede quale sia il più grande dei beni per l’uomo. Nell’opera “Etica Nicomachea” afferma che il sommo bene è la felicità; che alcuni ritengono che la felicità risieda nel piacere, altri nella saggezza, altri nella sapienza, altri nell’abbondanza di beni materiali, altri nell’onore, altri nella virtù. Aristotele giudica che ogni essere possa essere felice quando compie bene l’opera che gli è congeniale, e che propria dell’uomo è la vita secondo ragione, cioè la vita contemplativa:

“Quello che a ciascuno è proprio per natura è la cosa per lui migliore e più piacevole . E per l’uomo ciò è la vita conforme all’intelletto, se in ciò consiste soprattutto l’uomo. E questo modo di vita sarà dunque anche il più felice” (76).

E in questo adeguare la propria vita alla propria natura consiste la virtù, che rende felice la vita. Perciò dallo studio sulla felicità Aristotele passa allo studio dei vari tipi di virtù.

Sappiamo che Aristotele sostiene che l’anima contiene - oltre alla facoltà vegetativa - la componente appetitiva, cioè dei desiderî, che è irrazionale ma può essere dominata dalla ragione, e la componente razionale rappresentata dall’intelletto. A queste due ultime facoltà dell’anima corrispondono due categorie di virtù: 1) le virtù etiche, che consistono nel dominio della ragione sugli impulsi appetitivi; e 2) le virtù dianoetiche, che consistono nell’esercizio stesso della ragione.

Le virtù etiche derivano dall’abitudine a dominarsi ed a scegliere il “giusto mezzo” tra l’eccesso e il difetto di un certo impulso: per esempio, bisogna essere coraggiosi evitando sia la paura che la temerarietà, bisogna essere generosi evitando sia la prodigalità che l’avarizia. La più alta delle virtù etiche è la giustizia.
Le virtù dianoetiche, che derivano dall’istruzione, sono: arte, scienza, saggezza, intelletto e sapienza. L’arte è una disposizione creativa accompagnata da ragione; la scienza è conoscenza degli universali e delle cose che esistono necessariamente; la saggezza riguarda i beni umani e le decisioni intorno ad essi; l’intelletto coglie i principî primi delle scienze; la sapienza (sofìa) raggiunge la conoscenza delle realtà sovrumane, meravigliose ed universali. Nell’opera “La Metafisica” Aristotele afferma che la sapienza è “la ricerca delle cause prime e dei principî” (77). Nell’opera “Etica Nicomachea” egli scrive: “La sapienza è insieme scienza e intelletto delle cose più eccelse per natura… la sapienza produce la felicità” (78). La sapienza è perciò la virtù più alta. Quindi la vita felice è caratterizzata dalla vita contemplativa che trova la sua espressione più elevata nella virtù della sapienza.


La politica


Per vivere l’uomo ha bisogno degli altri uomini: “l’uomo è per natura un animale sociale” (79).
Ciò perché egli, solo tra gli animali, ha la parola e la percezione dei valori. Perciò egli si associa a formare la famiglia, la città, lo stato. Pertanto lo stato esiste per natura.
Per quanto riguarda la famiglia, l’uomo deve saper amministrare i beni, ma non deve accumulare ricchezza perché in tal caso trasformerebbe il denaro da mezzo a fine.
Bisogna controllare le nascite, altrimenti si andrà incontro alla miseria.
Lo stato è una comunità di cittadini partecipi di una costituzione. Le costituzioni buone sono quelle che perseguono il bene comune: se comanda uno solo si ha la monarchia, se comandano pochi si ha l’aristocrazia, se comandano molti si ha la politìa. Tutte queste sono valide, perché l’uno o i pochi o i molti governano per il bene comune. Deviazioni delle forme sopra menzionate sono quelle che perseguono il vantaggio di chi detiene il potere: la tirannide che è una monarchia che persegue l’interesse del monarca, l’oligarchia che è un governo di pochi che ricerca il bene dei ricchi, la democrazia che è un governo di molti che persegue il vantaggio dei poveri. Di queste deviazioni la tirannide è la forma peggiore, la democrazia è la più moderata.
Aristotele ritiene che, dato che il meglio sta nel mezzo, il ceto medio è il migliore di tutti; quindi “la comunità statale migliore è quella fondata sul ceto medio” (80).
Aristotele, come già Platone, afferma che l’educazione dei giovani deve essere uguale per tutti e affidata allo Stato e non ai privati cittadini. Egli ritiene che le discipline principali dell’educazione elementare siano: la scrittura, il disegno, la ginnastica e la musica.


La logica


Il campo nel quale più chiaramente si è manifestata la genialità di Aristotele è quello della logica. La logica studia la struttura del pensiero, dei concetti e dei discorsi umani, allo scopo di trovare quali sono le regole che assicurano che un determinato ragionamento è ben fondato e quindi vero. Innanzi tutto Aristotele formula il principio fondamenta-le della logica, che è il “principio di non contraddizione”: “È impossibile che la stessa cosa, nella stessa situazione e nello stesso tempo, sia e non sia” (81).
Quindi egli cerca di individuare tra i vari concetti quelli che meritano di essere ritenuti universali, cioè quei concetti essenziali che possono essere attribuiti a tutti gli individui che appartengono ad una classe, e quelli invece che sono particolari e quindi non essenziali. Per esempio, nella frase “l’uomo è mortale”, il concetto di mortalità è un universale perché è strettamente connesso alla natura dell’uomo ed è valido per tutti. Invece il concetto di “stare seduto”, anche se può essere attribuito a tutti gli uomini, non è essenziale per spiegare la natura umana.
Gli universali più vasti di tutti sono le categorie, che sono i predicati più generali che si possono affermare sulle cose. Aristotele ne distingue dieci: sostanza, che è la categoria fondamentale, dato che rappresenta il “che cos’è” della cosa (per esempio: Socrate è “uomo”) e che è l’unica che non ha bisogno di altro per esistere; qualità; quantità; relazione; luogo; tempo; situazione; possesso; agire; subire.
Il procedimento che collega le proposizioni tra loro è il sillogismo (da sullègo = raccolgo insieme): esso è un ragionamento nel quale, poste due affermazioni, per esempio “l’uomo è mortale” e “Socrate è uomo”, una terza ne deriva necessariamente, che “Socrate è mortale”. La prima è la premessa maggiore, la seconda è la premessa minore, la terza è la conclusione. Il sillogismo è dunque un procedimento logico deduttivo, che va dall’universale al particolare, al contrario del metodo induttivo di Socrate.





N O T E

52) Il filosofo contemporaneo Alfred Whitehead (1861-1947) afferma che la storia della filosofia europea è un insieme di note in margine alle opere di Platone; e il grande storico della filosofia, e filosofo anch'egli, Nicola Abbagnano (1901-1990) definisce Platone "la più alta personalità filosofica di tutti i tempi".

53) Metafisica (da: "tà metà tà fisicà") è la branca della filosofia che studia "le entità che sono al di sopra delle cose fisiche", cioè quelle realtà che sono al di là del mondo sensibile, e che pertanto non possono essere conosciute dai nostri sensi; già da Aristotele era considerata la componente più nobile della filosofia e superiore a tutte le altre scienze: "Tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa, ma nessuna sarà superiore" (Aristotele, La Metafisica, I, 2, 983 a, pag. 78; v. Bibliografia 10)

54) In Platone, come anche in Aristotele, manca un Dio creatore. Infatti i Greci non concepivano la creazione dal nulla.
Il demiurgo di Platone non crea, ma costruisce l'universo plasmando e ordinando una materia già esistente. Dio, le idee e la materia sono preesistenti alle singole cose; Dio fa emergere la realtà dando ordine ad una materia informe e disordinata. Questa costruzione del mondo è da Platone descritta nel dialogo "Timeo" (v. Bibliografia 2). In Aristotele Dio determina l'ordine del cosmo ed il movimento dei cieli.

55) Platone, "Parmenide", in Dialoghi, paragrafo IX, pag. 357 (v. Bibliografia 2).

56) Platone, Il Sofista, paragrafi 257b-258d, pagine 90-93 (v. Bibliografia 5).

57) Platone, "Menone", in Dialoghi, paragrafo XXI, pag. 216 (v. Bibliografia 2).

58) Platone, Teeteto, paragrafo 186d, pag. 159 (v. Bibliografia 4).

59) Ivi, paragrafo 185e, pag. 157

60) Platone, La Repubblica,VII, I, par. 515d, pag. 539 (v. Bibliografia 3).

61) Platone, "Il convito", in Dialoghi, paragrafo XXIX, pag. 333 (v. Bibliografia 2).

62) Platone, "Fedro", in Dialoghi, paragrafo XXXIV, pag. 536 (v. Bibliografia 2).

63) Dante definì Aristotele "maestro di color che sanno" (Inferno, IV: "limbo", 131), "maestro de li filosofi" (Convivio, IV, VIII, 15), "maestro de l'umana ragione" (Convivio IV, II, 16), "maestro e duca de la ragione umana" (Convivio, IV, VI, 8).

64) La "filosofia prima" è la "metafisica", che studia le cause prime, cioè i principi generali della realtà, che si trovano al di là del mondo sensibile (vedi anche nota 53).

65) Aristotele, La Metafisica, V, 30, 1025a, pag. 268 (v. Bibliografia 10).

66) Ivi, XII, 5, 1071a, pag. 497.

67) Ivi, VIII, 2, 1043a, pag. 360.

68) Sempre nell'opera "La Metafisica" Aristotele afferma che le cose esistono di per sé, sia che vengano percepite da esseri dotati di percezione, sia che non vengano percepite da alcuno: "Se esiste solamente ciò che è percepibile dai sensi, qualora non ci fossero esseri animati, non potrebbe esserci nulla... ma è impossibile che gli oggetti che producono le sensazioni non esistano anche indipendentemente dalla sensazione.
Infatti la sensazione non è sensazione di sé medesima, ma esiste qualcosa che è altro dalla sensazione e al di fuori della sensazione, il quale esiste, di necessità, prima della sensazione stessa" (Aristotele, La Metafisica, IV, 5, 1010b, pag. 202). Con questa affermazione Aristotele contrasta, con anticipo di due millenni, la teoria dell'immaterialismo di George Berkeley (1685-1753; v. pag. 89), il quale asserirà che gli oggetti esterni esistono solo in quanto vengono percepiti.
69) Ivi, XII, 6, 1071b, pag. 501.

70) Ivi, XII, 7, 1072a, pagine 503-504.

71) Ivi, XII, 7, 1072b, pagine 504-505.

72) Ivi, XII, 9, 1074b, pag. 514.

73) LA COSMOLOGIA DI ARISTOTELE Aristotele afferma che l'universo è finito e sferico. La sfera più esterna, o cielo delle stelle fisse, che lo racchiude, si muove di moto circolare, che è il movimento perfetto. Al di là di questo cielo vi è solo il motore immobile, cioè Dio.
All'interno del cielo delle stelle fisse vi sono i cieli, anch'essi sferici, del sole, poi dei pianeti, infine della luna; anche il loro movimento è circolare. Secondo Aristotele i cieli sono eterni e costituiti da un elemento che si chiama ètere. Al di sotto della luna ci sono gli elementi mortali - costituiti da acqua, aria, terra e fuoco - che si muovono di movimento rettilineo.
Quindi Aristotele afferma che la terra, che è sferica ed immobile, sta al centro dell'universo. Attorno ad essa ruotano la luna, gli altri pianeti e il sole. Questa teoria di Aristotele, confermata nel II secolo dopo Cristo dall'astronomo Tolomeo, benché errata, fu ritenuta valida fino al XVI secolo, quando Nicolò Copernico sostenne invece che il sole è al centro e attorno ad esso ruotano la terra e gli altri pianeti.
In realtà, già nel III secolo a.C. un allievo del Liceo aristotelico, ARISTARCO DI SAMO (310-230 a.C.) formulò la teoria che sia la terra a ruotare intorno al sole, e non viceversa. Però sulla tesi eliocentrica di Aristarco continuò a prevalere quella geocentrica di Aristotele a causa dell'enorme prestigio di quest'ultimo.
Precedentemente già i Pitagorici – differenziandosi dagli altri filosofi e scienziati della loro epoca, i quali sostenevano che la terra è piatta (tranne Anassimandro, che la riteneva cilindrica) e si trova al centro dell'universo – avevano affermato che al centro c'è il fuoco, e che la terra è un astro sferico che gira intorno al fuoco centrale, attorno al quale ruotano anche il sole, la luna e gli altri pianeti, e che la terra, muovendosi in circolo attorno al fuoco centrale, dà origine al giorno e alla notte. Anche Eraclide Pontico (IV secolo a.C.), discepolo di Platone, aveva riconosciuto il movimento diurno della terra e aveva sostenuto che Mercurio e Venere ruotano intorno al sole, mentre gli altri pianeti ruotano intorno alla terra.

74) Aristotele, Anima, B, 1, 412a, pag. 115 (v. Bibliografia 11).

75) Ivi, B, 4, 415b, pag. 135.

76) Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1178a, pag. 265 (v. Bibliografia 12)

77) Aristotele, La Metafisica, I, 1, 981b, pag. 74 (v. Bibliografia 10).

78) Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 7, 1141b, pag. 148 e VI, 12, 1144a, pag. 158 (v. Bibliografia 12).

79) Aristotele, La Politica, I, 2, 1253a, 3, pag. 6; Aristotele, La Politica, III, 6, 1278b, 20, pag. 82 (v. Bibliografia 13); Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 9, 1169b, 18, pag. 237 (v. Bibliografia 12).

80) Aristotele, La Politica, IV, 11, 1295, 35, pag. 137 (v. Bibliografia 13).

81) Aristotele, La Metafisica, IV, 3, 1005 b, pagine 184-185; IV, 4, 1006 a, pagine 185-186; XI, 5, 1061 b, pagine 452-453 (v. Bibliografia 10).





(pagine 95-105)

IL CRITICISMO DI KANT

Pietra miliare nella storia della filosofia, il filosofo tedesco Immanuel Kant (Konigsberg 1724-1804) si interessò di filosofia, teologia, matematica, fisica, geografia, pedagogia.
Le sue opere principali sono: “Critica della ragion pura” (1781), “Prolegomeni ad ogni futura metafisica” (1783), “Fondazione della metafisica dei costumi” (1785), “Critica della ragion pratica” (1788), “Critica del giudizio” (1790).


La critica della ragion pura (136)


Esiste la realtà esterna? Cosa possiamo conoscere?

Kant si chiede quale conoscenza sia possibile per l’uomo. Egli delimita con chiarezza cosa l’uomo può conoscere e cosa non può conoscere e quali siano gli strumenti della conoscenza umana.
Egli, limitando il campo d’azione della conoscenza umana, intende fondarla su basi più solide all’interno dei propri limiti. Infatti Kant definisce la propria filosofia “critica” in quanto essa, prima di effettuare qualunque affermazione, studia la struttura ed i limiti della nostra conoscenza, su cui tali affermazioni sono basate.
Innanzi tutto Kant distingue il proprio atteggiamento critico dall’“idealismo mistico” di Berkeley e prende le distanze dallo scetticismo di Hume:

“L’idealismo consiste nell’affermazione che non vi sono altri esseri che pensanti; le altre cose che noi crediamo di percepire sarebbero soltanto rappresentazioni alle quali nel fatto non corrisponderebbe alcun oggetto esistente. Io al contrario dico: le cose esistono fuori di noi e sono oggetti dei nostri sensi, ma nulla sappiamo di ciò che esse siano in sé, bensì conosciamo soltanto i loro fenomeni, cioè le rappresentazioni che esse producono in noi eccitando i nostri sensi” (137). “Hume partì principalmente da un unico ma importante concetto della metafisica, cioè quello della connessione di causa ed effetto... Per quanto sconsiderata e inesatta fosse la sua illazione, pure essa era fondata su una ricerca tale che ben meritava che i buoni ingegni del suo tempo si fossero uniti a risolvere più felicemente la questione da lui proposta... La questione non era se il concetto di causa sia legittimo, adoperabile e indispensabile riguardo ad ogni conoscenza della natura, ché Hume non aveva mai posto in dubbio questo; ma se esso sia pensato “a priori” (138) dalla ragione, e in tal modo abbia una verità intrinseca indipendente da ogni esperienza, e perciò una applicabilità molto più estesa, non limitata agli oggetti della esperienza... Subito trovai che il concetto di connessione tra causa ed effetto non è affatto l’unico con cui l’intelletto pensa “a priori” i nessi tra le cose... Pervenni così alla deduzione di questi concetti, dei quali ero oramai sicuro che non sono, come Hume aveva ritenuto, derivati dall’esperienza, ma traggono origine dall’intelletto puro” (139). Dunque, il concetto di connessione tra causa ed effetto è uno degli schemi con cui il nostro intelletto pensa.


La conoscenza sensibile

Quindi Kant afferma innanzi tutto che gli oggetti esterni esistono, ma che noi non possiamo conoscere cosa essi siano in sé, bensì soltanto come essi appaiono a noi esseri umani. Ad altri esseri tali oggetti possono apparire in maniera diversa.
Caratteristica della conoscenza umana è quella di percepire gli oggetti in un determinato spazio e in un determinato tempo. Perciò Kant cerca di definire lo spazio ed il tempo. Newton aveva affermato che essi esistono indipendentemente dai corpi che contengono, Leibniz riteneva invece che essi rappresentano solo relazioni tra i vari oggetti.
Kant ritiene che lo spazio e il tempo siano degli schemi, esistenti nella nostra mente (140) , attraverso i quali noi uomini -e non così necessariamente gli altri esseri - riceviamo le esperienze; sono cioè le forme in cui noi siamo costretti a percepire le cose.
Cioè noi percepiamo gli oggetti in tre dimensioni perché la nostra mente è strutturata in modo tale che non può percepirli in altro modo, ma non possiamo escludere che da altri esseri o in altri mondi essi possano essere percepiti in un numero diverso di dimensioni; e non possiamo escludere che altri esseri percepiscano in modo diverso da noi lo scorrere del tempo (141).
Tali schemi di spazio e tempo possono essere applicati solo alle apparenze sensibili o fenomeni e non alle cose come sono in sé. Infatti Kant definisce “fenomeno” (dal greco faì-nomai = appaio) la cosa come appare a noi, essendosi conformata agli schemi di spazio e tempo. Definisce invece “noùmeno” la cosa come è realmente in sé, cioè il fondamento delle cose, che non si uniforma agli schemi della nostra percezione e pertanto non è conoscibile da noi uomini.
Ciò garantisce la stabilità dell’esperienza.
Infatti prima di Kant, ritenendosi che la conoscenza umana si uniformasse alle cose da conoscere, nulla garantiva che domani un certo oggetto ci sarebbe apparso come ci era apparso il giorno precedente. Se invece, come afferma Kant in questa sua nuova impostazione del problema gnoseologico che egli stesso definisce “rivoluzione copernicana”, sono le cose ad uniformarsi alle strutture della nostra conoscenza e noi possiamo percepirle solo nel modo in cui tali strutture ci permettono di riceverle, essendo stabili queste strutture, rimarrà invariato l’aspetto delle cose che conosciamo, a meno che esse stesse non si modifichino.


La conoscenza intellettuale

Kant afferma però che la conoscenza, per essere valida, non può essere fondata solo sull’esperienza. Ogni conoscenza comincia con l’esperienza; ma l’esperienza non garantisce universalità ai suoi giudizî, dato che essa può dirci che una cosa è fatta in un modo o in un altro, ma non che non possa essere diversamente.
Solo la conoscenza a priori garantisce necessità ed universalità ai proprî giudizî. Infatti la nostra mente, oltre a recepire i fenomeni, cioè le rappresentazioni del mondo esterno, tra-mite la sensibilità, può essa stessa produrre dei pensieri tra-mite l’intelletto. I sensi percepiscono (o, nella terminologia kantiana, intuiscono), l’intelletto giudica.

“Nessuna di queste due facoltà è da anteporre all’altra. Senza sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche... La conoscenza scaturisce dalla loro unione” (142).
Come la conoscenza sensibile si attua attraverso gli schemi di spazio e tempo, così la conoscenza intellettuale si attua attraverso schemi che Kant chiama categorie, che rappresentano il modo in cui l’intelletto pensa e il modo in cui elabora e collega i dati forniti dall’esperienza.
Le dodici categorie (o concetti puri dell’intelletto) sono raggruppate a tre a tre sotto quattro titoli: quantità (unità, pluralità, totalità), qualità (realtà, negazione, limitazione), relazione (sostanza, causa, azione reciproca), modalità (possibilità, esistenza, necessità). Come si può vedere, tra le categorie ci sono anche i concetti di sostanza e di causa, che Hume riteneva arbitrari.

“Lo schema puro della quantità è il numero… Lo schema della sostanza è la permanenza del reale nel tempo (Non è il tempo che scorre, ma in esso scorre l’esistenza del mutevole. Il tempo è immobile e permanente… Il tempo in se stesso non si può percepire). Lo schema della causa è il reale a cui, una volta che esso sia posto, segue sempre qualche altra cosa.
Lo schema della reciprocità (azione scambievole) delle sostanze è la simultaneità delle determinazioni dell’una con quelle dell’altra. Lo schema della realtà è l’esistenza in un determinato tempo. Lo schema della necessità è l’esistenza di un oggetto in ogni tempo. Contingente è ciò di cui il non-essere è possibile” (143).

Secondo Kant, esiste inoltre una categoria suprema, che egli chiama “io penso” o “io puro”, che unifica e sintetizza tutti i contenuti dell’intelletto. Nel compiere tale sintesi conoscitiva, il soggetto (cioè l’essere umano) prende coscienza della propria identità e in tal modo si rende conto della propria esistenza.
La conclusione di Kant sulle possibilità della conoscenza umana è dunque che possiamo conoscere nei limiti e nei modi in cui le nostre strutture sensoriali e cerebrali ci consentono di conoscere.


La critica della ragion pratica

Kant ha concluso la sua teoria della conoscenza affermando che è conoscibile solo ciò che può essere percepito dall’intuizione e poi unificato dall’intelletto, cioè solo il mondo dell’esperienza.
Il mondo metafisico - cioè Dio, l’anima immortale e il libero arbitrio - non può essere conosciuto dalla mente umana.
Nella “Critica della ragion pratica”, l’opera in cui Kant espone le sue teorie in campo etico, egli tenta di giungere a queste realtà inconoscibili attraverso la dimostrazione dell’esistenza in noi di una legge morale.

Nell’opera “Fondazione della metafisica dei costumi” Kant afferma che la moralità non può essere fondata sul sentimento o sull’inclinazione naturale o sulla ricerca di un utile o sulla paura di una punizione, bensì sul dovere.
Kant afferma che i principi etici sussistono a priori nella ragione. La legge morale deve essere valida per tutti e in tutte le circostanze. Essa è espressa dall’imperativo categorico.
“L’imperativo categorico presenta un’azione come oggettivamente necessaria per se stessa, indipendentemente dal rapporto con un altro scopo... Esso non concerne la materia dell’azione e ciò che da essa può risultare, bensì la forma e il principio a cui l’azione obbedisce... L’imperativo categorico non è subordinato ad alcuna condizione, e può dirsi un comando necessario in senso assoluto” (144).
L’imperativo categorico è espresso dalle formule “Agisci in modo che la tua azione possa sempre valere da norma universale per ogni uomo” (145) e “Agisci in modo da considerare l’umanità in te e negli altri come fine e non semplicemente come mezzo’’ (146).
Quindi, secondo Kant, sia che crediamo in Dio sia che non crediamo, sia che speriamo in una ricompensa sia che no, la moralità deve essere fondata sul dovere imposto da noi a noi stessi, esplicitato dalle formule dell’imperativo categorico.

Molto bella è la pagina in cui Kant esalta la legge morale:
“Due cose riempiono l’animo mio di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti quanto più spesso e più a lungo il mio pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me...
La prima di esse comincia dal luogo che occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a grandezze immensurabili, con mondi sopra mondi, e sistemi di sistemi e, oltre a ciò, ai tempi senza confine del loro movimento periodico, del loro inizio e del loro durare.
La seconda parte dal mio Io invisibile, dalla mia personalità; e mi rappresenta in un mondo che ha un’infinità vera, ma è percepibile solo dall’intelletto, e con il quale mi riconosco in una connessione non semplicemente accidentale, come nel primo caso, bensì universale e necessaria. La prima veduta, di un insieme innumerabile di mondi, annienta, per così dire, la mia importanza di creatura animale, che dovrà restituire la materia di cui è fatta al pianeta (un semplice punto dell’universo), dopo essere stata dotata per breve tempo (non si sa come) di forza vitale.
La seconda, al contrario, innalza infinitamente il mio valore, come valore di una intelligenza, in grazia della mia personalità, in cui la legge morale mi rivela una vita indipendente dall’animalità, e perfino dall’intero mondo sensibile: almeno per quel che si può desumere dalla destinazione finale della mia esistenza in virtù di questa legge; la quale destinazione non è limitata alle condizioni e ai confini di questa vita, ma va all’infinito” (147).

Infatti sulla tomba di Kant a Konigsberg è scritto: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.

La presenza in noi della legge morale garantisce, secondo Kant, la libertà dell’io, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio.
Perché una azione sia morale è necessario che sia possibile la scelta, cioè la libertà.
L’uomo deve perfezionarsi indefinitamente in campo morale, l’esistenza terrena non è sufficientemente lunga per raggiungere la perfezione morale, che può pertanto essere poi conseguita in una vita ultraterrena: pertanto bisogna ammettere l’immortalità dell’anima.
Perché l’uomo possa raggiungere una felicità commisurata alla moralità è necessario che vi sia un garante supremo, che è Dio.


La critica del giudizio

La “Critica del Giudizio” contiene il giudizio estetico e il giudizio di finalità.


L’estetica

Nella prima parte dell’opera “Critica del Giudizio” Kant espone la sua teoria estetica e propone due interessanti definizioni dei concetti di bello e di sublime.
Secondo Kant il bello non è una caratteristica dell’oggetto, ma nasce nel rapporto tra l’oggetto contemplato ed il nostro spirito.
Poi Kant distingue la bellezza libera, che non deve uniformarsi ad un modello (per esempio la bellezza dei fiori), e la bellezza aderente, che invece viene riferita ad un canone o ad uno stile (per esempio la bellezza di un uomo o di un edificio).
Kant definisce sublime “ciò che è assolutamente grande”. “Nel caso del bello il piacere è legato con la rappresentazione della qualità, nel caso del sublime con quella della quantità... Il piacere del sublime contiene meraviglia... La natura è sublime in quei suoi fenomeni, la cui intuizione include l’idea della sua infinità’’ (148).
Poi Kant distingue: a) il sublime matematico determinato dalla visione di una cosa estremamente grande (la vista dell’immenso oceano, l’idea dell’immensità degli spazi celesti); b) il sublime dinamico dovuto alla constatazione della potenza, purché ci troviamo al sicuro (la vista di un vulcano in eruzione, dell’oceano in tempesta).
Kant aggiunge però che sublime non è l’oggetto, bensì il nostro animo che, provando queste sensazioni, si eleva al di sopra della mediocrità.

La finalità

Nella seconda parte della “Critica del Giudizio” Kant si chiede se la natura abbia una finalità. Egli risponde che l’uomo è portato a ritenere che la natura sia organizzata secondo scopi e a pensare di essere egli stesso, in quanto unico essere morale, lo scopo finale di essa.
Tale opinione umana dipende dal modo in cui è strutturata la nostra mente, ma la sua veridicità non è dimostrabile ed è comunque possibile.




N O T E

136) Kant definisce “pura” una conoscenza completamente indipendente dall’esperienza, e perciò possibile del tutto “a priori” (a priori = indipendentemente da ogni esperienza; invece conoscenza “a posteriori” significa, nella terminologia kantiana, conoscenza derivata dall’esperienza).

137) Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, parte I, par. 13, osservazione II, pag. 44 (v. Bibliografia 37).

138) “a priori”: v. nota 136.

139) Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, prefazione, pagine 5, 6, 7, 9 (v. Bibliografia 37).

140) Kant li chiama “forme pure” o “forme a priori”, cioè indipendenti dall’esperienza.

141) La rappresentazione dello spazio – come pure la forma degli oggetti e lo schema del sé corporeo – è integrata prevalentemente a livello dell’emisfero destro del cervello.
Sembra invece che l’orientamento temporale sia elaborato a livello dell’emisfero cerebrale sinistro, che certamente è deputato alla elaborazione del linguaggio e del calcolo.
Il tempo è una dimensione umana, probabilmente gli animali non lo comprendono a livello di coscienza; essi percepiscono invece lo spazio. Il filosofo danese Kierkegaard (1813-1855) afferma: “Appena è posto lo spirito, il momento c’è... Per la natura il tempo non ha alcun significato” (Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, capitolo III, pag. 110; v. Bibliografia 48).

142) Kant, Critica della ragion pura, pag. 94 (v. Bibliografia 38).

143) Ivi, pagine 166-168, 202, 248.

144) Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, sezione II, pagine 105-109 (v. Bibliografia 39).

145) Ivi, pag. 115.

146) Ivi, pag. 126.

147) Kant, Critica della ragion pratica, conclusione, pagine 387-388 (v. Bibliografia 39).

148) Kant, Critica del giudizio, parte I, sezione I, libro II, pagine 96, 92, 104 (v. Bibliografia 40).




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