Che cos'è l'essere di Parmenide:
spiegazione di un enigma filosofico







(pagine 95-105)

IL RAGIONAMENTO DI PARMENIDE


Entrare nella testa di Parmenide
Studiando di continuo lo scritto di Parmenide, avverto la sensazione, frustrante e al tempo stesso stimolante - che credo tutti gli studiosi del poema abbiano provato -, che l’“essere” del filosofo di Elea sia inafferrabile. Più lo inseguo, più mi sfugge. Paradossalmente questo “essere”, che Parmenide concepisce come stabile ed immobile, ci sfugge letteralmente dalle mani. Il problema è sempre lo stesso: è oggetto o è concetto?
Dopo tanti sforzi e meditazioni credo però di essere riuscito a ricostruire l’intero ragionamento del filosofo eleate e di essere in un certo senso “entrato nella sua testa”.
Immagino Parmenide che, in una mattina di primavera degli anni ’70 del V secolo a.C., sale sull’altura dell’acropoli di Elea: da una parte guarda le colline, gli alberi, il mare ed il cielo che si toccano all’orizzonte, barche sul mare, pescatori dediti alla loro attività; volgendo poi lo sguardo verso la città, osserva il tempio, le case, le persone.
Il tarlo nella sua testa è la teoria di Eraclito, a causa della quale, dato che tutte le cose cambiano, nessuna di esse è realmente esistente, l’essere e il non essere sono la stessa cosa e non la stessa cosa, e pertanto nessuna cosa è conoscibile.
Allora Parmenide riflette sul fatto che in autunno le foglie verdi degli alberi diventeranno gialle e rosse e marroni e poi cadranno a terra e moriranno, tra alcuni anni o secoli le persone, le case, lo stesso tempio cambieranno ed infine saranno distrutti dal tempo (158) , sul mare ci saranno altre barche ed altri uomini, non gli stessi di oggi; però il cielo ci sarà sempre: il cosmo esiste stabilmente, esso è eterno e fermo. Rapito in questa contemplazione dell’universo, Parmenide comincia a pensare che tutto, essendo parte del cosmo, sia eterno, che tutto si conservi per sempre, e dunque estende il concetto di eternità e di immobilità dal cielo al substrato unico e permanente che secondo la sua concezione permea tutte le cose che percepiamo più vicine a noi e pensa che i nostri organi di senso, che ce le mostrano molteplici, mutevoli e caduche, siano fallaci (159) .


L’essere è
Sono convinto che Parmenide scrisse il poema in contrapposizione all’affermazione di Eraclito (160) : “Tutto diviene, nulla è”. Parmenide avverte la stridente contraddizione tra i due termini della frase “nulla è” e si chiede: se nulla esiste, come mai noi abbiamo nella nostra mente il concetto di “è”?
Egli riflette: se usiamo il verbo “è”, significa che nella nostra mente c’è il concetto di esistenza; dunque - dato che “è la stessa cosa pensare ed essere” (fr. 3), “la stessa cosa sono il pensare e la cosa pensata” (8, 34), “se non esistesse, non potresti conoscerlo né esprimerlo” (2, 7-8) - se abbiamo nella nostra mente il concetto di esistenza, qualcosa deve realmente esistere: “l’essere è” (2,3; 6,1), “niente affatto non è” (6,2).
Se il pensiero è pensiero dell’essere, se “senza l’essere… non troverai il pensare” (8, 35-36), dato che il pensiero esiste ed esiste il pensiero dell’essere, qualcosa deve necessariamente esistere. Quindi, al verbo “essere” (einai), che esprime l’esistenza, non può essere associata la parola “nulla”, ad esso deve essere associato il termine che indica ciò che esiste, l’esistente (“on”; nel dialetto ionico, usato da Parmenide, “eon”). Da qui tutta la serie di frasi imperniate sui vari modi della coniugazione del verbo essere, tanto da sembrare giochi di parole: “opwV esti” (“che è”: 2,3), “eon emmenai” (“che l’essere è”: 6,1), “esti gar einai” (“è infatti essere”: 6,1), “wV estin” (“che è”: 8,2).


L’essere esiste sempre
Questo qualcosa che deve necessariamente esistere, per essere caratterizzato dal verbo “è”, deve esistere sempre, altrimenti diremmo: “è stato” oppure “sarà”. Se è stato o sarà, si perderebbe la peculiarità dell’ “è”: l’“è”, la cosa che è, l’ente, l’esistente (on), non solo deve esistere, ma deve esistere sempre, non nasce e non muore: “è non generato e imperituro… così la nascita è spenta e la morte è ignota” (8, 3-21), “se nacque non è, né è se si appresta ad essere” (8, 20).

Però potrebbe anche verificarsi che esista sempre qualcosa, ma cose sempre diverse (come per esempio, nel genere umano, persone sempre diverse si susseguono nel tempo, prima il bisnonno, poi il nonno, poi il padre, poi il figlio, ecc., cosicché c’è sem-pre qualcuno). Ciò però non ci fornirebbe la garanzia dell’essere sempre esistente, perché ci potrebbe essere una interruzione delle successive nascite o delle continue trasformazioni degli enti contingenti. La garanzia della presenza costante di qualcosa di esistente ci è invece assicurata soltanto dalla esistenza di un essere eterno, indistruttibile, “necessario”, cioè che esiste necessariamente, cioè che non può non essere.


L’essere è uno
Perché una cosa esista sempre, deve non essere soggetta a nascita e morte, ma deve anche non trasformarsi: “rimanendo identico nel medesimo luogo” (8, 29), “Se si trasforma, deve perire ciò che prima era e ciò che non è deve nascere: ecco che l’essere perì e il non essere nacque”(161) , “Se l’essere mutasse anche solo di un capello in diecimila anni, andrebbe interamente distrutto in tutta la durata dei tempi”(162).
Inoltre, deve essere immobile, perché anche il movimento è una trasformazione, cambiamento di luogo; deve essere continuo, omogeneo e non diviso, altrimenti in mezzo ad esso si interporrebbe il non essere, che non può esistere; è compiuto, perché se non lo fosse, tenderebbe a diventarlo e dunque dovrebbe modificarsi per passare dallo stato di incompiutezza a quello perfetto della compiutezza, nel quale invece si trova già.
Ora, è forse possibile che tutte le molteplici cose che vediamo quotidianamente non nascano, non si trasformino, non cambino luogo e colore, non muoiano? Certamente no! Allora l’essere deve essere uno.
Perché?
La filosofia di Eraclito era stata interpretata dai suoi contemporanei come la dottrina del “tutto diviene, nulla è”. Come S. Agostino affermerà, a proposito del tempo, che esso non esiste, in quanto il passato non è più, il futuro non è ancora e il presente diventa subito passato, così Eraclito sostiene che il mondo non esiste, ma consiste in una continua trasformazione.
Parmenide è un pitagorico, un conservatore: la trasformazione vorticosa degli enti descritta da Eraclito è per lui un marasma inaccettabile.
Egli, osservando le stelle, il sole, la luna, il mare e le montagne, pensa che essi siano rimasti uguali a mille ed a un milione di anni prima. Pensa che, non essendosi modificato, l’essere, ciò che è, ciò che esiste, il cosmo, sia eterno. Così egli enuncia un principio che rimarrà costante nel pensiero greco: il mondo è eterno. Aristotele affermerà che sia il mondo che il movimento delle sfere celesti sono eterni.
Allora Parmenide ritiene di dover cercare la motivazione dell’eternità del mondo.

Quale ragionamento logico ha seguito il filosofo di Elea per dimostrare che l’essere esiste sempre? Egli ha ritenuto essenziale che l’essere fosse uno e non molti.

Se gli enti fossero molti, o uno deriverebbe dall’altro oppure ognuno sarebbe indipendente dagli altri.
Se ognuno nasce dall’altro (sia che il primo sia nato che non nato), dato che ciò che nasce è destinato a morire, essi vanno gradualmente verso la morte, verso il non essere (quindi, indicando ogni singolo ente con un numero):

nascita > 1 > 2 > 3 > 4 > 5 > 6 > 7 > n > morte
non nato 1 > 2 > 3 > 4 > 5 > 6 > 7 > n > morte

Se ogni ente è indipendente dagli altri, ma diviene, è destinato a morire:

nascita > 1 > morte
nascita > 2 > morte
nascita > 3 > morte
.............
.............

Se ognuno dei molteplici enti non diviene, non nasce e non muore, qual è il rapporto tra di essi? Se ognuno non può trasformarsi nell’altro, da dove provengono essi tutti? Da uno di essi? O dal non essere?
Se fossero molti, afferma Parmenide, se uno di essi è l’essere, gli altri sono non essere. Inoltre, se gli esseri fossero molti, tra di essi si interporrebbe il non essere. Ma ciò è impossibile perché il non essere non può esistere. Perciò l’essere è uno.
Se l’essere è uno, o è fermo o è mosso. Ma se è mosso diviene, se diviene va verso la morte, verso il nulla, verso il non essere, e allora prima o poi non esisterà più nulla. Inoltre, per muoversi, l’essere dovrebbe muoversi nel non essere; ma, come già detto, il non essere non può esistere e non può neppure essere pensato. Perciò l’essere è uno, stabile e fermo.
Se l’essere è uno, o esso nasce e muore, e allora prima e dopo di lui non ci sarebbe nulla - il che secondo Parmenide non è concepibile -, oppure esso non nasce e non muore.
Perciò l’essere è uno, non nasce e non muore ed è eterno.


L’essere è concetto e cosmo
Ma che cos’è dunque questo “essere” di Parmenide? è un concetto logico? è una divinità? è il cosmo?
Credo che Parmenide sia partito dal ragionamento logico che ho esposto e poi abbia compiuto la fusione tra concetto logico e cosmo, tra pensiero ed essere, tra pensare e cosa pensata.
Così nel corso del frammento 8 l’essere-concetto assume gradualmente l’aspetto dell’essere-oggetto-cosmo. Così vediamo che esso mostra di avere una consistenza fisica:
“Non infatti separerà l’essere che si tiene stretto all’essere né quando disperso da per tutto completamente nel cosmo né quando riunito insieme”(4, 2-4)
“Né è diviso, poiché è tutto uguale: né c’è in qualche parte un di più di essere che possa impedirgli di essere unito, né un di meno, ma è tutto pieno di essere. Perciò è tutto continuo: l’essere infatti si accosta all’essere” (8, 22-25)
“Ma poiché c’è un limite estremo, è limitato, da ogni parte simile a massa di ben rotonda sfera, dal centro uguale in ogni parte” (8, 42-44)
“Fin là infatti da ogni parte uguale, in modo uguale viene a contatto con i confini” (8, 49).
Inoltre l’essere è grande, contenuto “nei limiti di grandi legami” (8, 26).

Ma allora, l’essere di Parmenide è il cosmo?
Nel fr. 4 sembrerebbe che non sia così: “non infatti separerà l’essere che si tiene stretto all’essere né quando disperso da per tutto completamente nel cosmo né quando riunito insieme”(4, 2-4). Qui l’essere e il cosmo sembrano due entità diverse, l’una il contenuto, l’altra il contenente.
Secondo Parmenide il cosmo è tutto lo spazio esistente, ed ha la forma di una enorme sfera.
L’essere, l’esistente, ciò che esiste, riempie il cosmo, “viene a contatto con i confini” (8, 49). L’essere è ciò che esiste nel cosmo; l’essere comprende tutto ciò che esiste, manifestandosi ai mortali sotto le forme di cose, animali, uomini, pensieri umani, sole, luna, astri.
Dato che l’essere riempie tutto lo spazio disponibile, oltre all’essere non c’è nient’altro, perciò il non essere e il vuoto non esistono.
Dunque, il cosmo è lo spazio, l’essere è un corpo omogeneo che riempie tutto lo spazio; ma non esistendo il non essere e il vuoto all’interno né dell’essere né del cosmo, e riempiendo l’essere tutto il cosmo, l’essere coincide con il cosmo.
Nel fr. 8 il concetto viene chiarito meglio.
La Divinità (“la dura Necessità”) impone un limite (“peiras”) all’estensione spaziale dell’essere rinchiudendolo intorno con grandi legami (8, 26; 8, 30-31; 8, 42). L’essere, enorme e sferico, viene a contatto con questi confini impostigli (8, 49).
L’essere costituisce il cosmo e riempie tutto lo spazio cosmico concesso dalla Legge Divina, coincidendo in tal modo con esso. La superficie esterna dell’essere costituisce il confine del cosmo, pertanto al di fuori di esso - non esistendo altro spazio disponibile - non esiste null’altro.

All’epoca di Parmenide, ritenendo la maggior parte dei pensatori che il cosmo fosse spazialmente limitato, c’era una discussione tra i filosofi-cosmologi su cosa ci fosse attorno ad esso: ci sono altri mondi? c’è il vuoto? c’è il nulla?
Parmenide risolve il problema con una risposta, come sempre, categorica: al di fuori e al di là e intorno all’essere non c’è niente (163) , perché l’essere riempie tutto lo spazio esistente e perché il niente e il vuoto non esistono: tutto il mondo e tutto ciò che è pensabile coincidono con l’essere: “è tutto pieno di essere” (8, 24). Tutto lo spazio esistente è riempito dall’essere; esiste soltanto l’essere e perciò si può pensare soltanto l’essere.


Identità di pensiero ed essere
Eraclito aveva sostenuto che nulla esiste stabilmente.
Lo scopo di Parmenide è affermare che l’essere esiste stabilmente. Poiché il pensare - secondo il filosofo di Elea - coincide con la cosa pensata, con l’essere, poiché possiamo pensare solo ciò che esiste, se pensiamo che l’essere esiste, esso realmente esiste.
Se mi metto a pensare, posso pensare solo ciò che esiste, perché la mente non commette errori. Se penso, penso l’essere, penso che è, che esiste: il pensiero è pensiero dell’essere, non può essere pensiero di nulla, di non essere, di ciò che non esiste. Se invece vedo o odo una cosa, gli occhi e le orecchie, essendo fallaci, possono involontariamente trarmi in errore e farmi vedere come enti molteplici quelle che in realtà sono manifestazioni di un unico essere.
Secondo Parmenide la mente umana, se si lascia guidare dai sensi, viene fuorviata nel seguente modo: l’essere umano vede una cosa, percependola la conosce e quindi la pensa come cosa esistente e dunque le conferisce un nome.
Solo la mente divina comprende la vera realtà.


Il perverso meccanismo di moltiplicazione degli enti da parte degli esseri umani
Quindi Parmenide afferma che il meccanismo utilizzato dai mortali è errato. Essi vedono delle cose con “l’occhio che non osserva”, odono dei suoni con “l’orecchio rimbombante”, ascoltano le voci prodotte dalla lingua degli altri uomini, li percepiscono, li conoscono, li pensano e quindi attribuiscono loro un nome che li distingua l’uno dall’altro.
I mortali, fin dall’antichità, hanno cominciato a percepire i molteplici aspetti apparenti del reale, le molteplici manifestazioni dell’essere, le forme che esso assume ai loro occhi, e li hanno denominati uno ad uno.
Se invece avessero avuto intelligenza divina, avrebbero compreso che la sostanza sottostante a queste manifestazioni apparentemente numerose e cangianti è unica ed immutabile, è l’essere.
Quindi, non bisogna fidarsi della vista, dell’udito e della lingua, ma solo del ragionamento.
Se utilizziamo la ragione, dobbiamo concludere che l’essere è uno.


L’origine dell’errore dei mortali
L’essere è dunque uno solo. Gli esseri umani cominciarono ad errare quando ritennero di distinguere nell’essere due entità, la luce e la tenebra; poi distinsero la terra e l’aria, l’acqua e il fuoco, il sole e la luna, la volta celeste e gli astri che vi sono “appesi”, poi il curvo ed il retto, il fermo e il mosso, il bene e il male, poi il maschio e la femmina, il giovane e il vecchio, lo sveglio e il dormiente, il vivo e il morto.
Tutte queste differenziazioni non sono entità reali, bensì sono manifestazioni dell’unico “essere” che è concetto-pensiero/ente-oggetto- cosmo.
A causa dell’errore degli uomini “a questo unico essere saranno attribuiti tanti nomi quante sono le cose che i mortali proposero, credendo che fossero vere, che nascessero e perissero, che esistessero e non esistessero, che cambiassero luogo e mutassero luminoso colore” (8, 39-42).
L’essere, che è uno, che però ai sensi umani appare diviso in molteplici oggetti, ridiventa uno agli occhi della mente, della ragione: “Guarda come cose lontane sono saldamente presenti alla mente: non infatti separerà l’essere che si tiene stretto all’essere né quando disperso da per tutto completamente nel cosmo né quando riunito insieme” (4, 1-4); “né l’abitudine esperimentata ti spinga lungo questa via, a dirigere l’occhio che non osserva e l’orecchio rimbombante e la lingua, ma giudica con la ragione la molto combattuta prova da me esposta” (7, 3-6).


“LA STESSA COSA SONO IL PENSARE E LA COSA PENSATA” (8,34)


Il dubbio millenario sul significato dell’essere di Parmenide, se esso cioè sia il concetto logico astratto di essere oppure un oggetto-corpo-sostanza-cosmo è chiarito dalla celeberrima frase: “la stessa cosa sono il pensare e la cosa pensata”. L’essere di Parmenide è quindi la sostanza corporea unitaria del mondo e contemporaneamente il concetto logico di essere esistente.
Essendo oggetto del pensiero, l’essere, oltre che una realtà fisica, è una realtà intelligibile, cioè che viene conosciuta per mezzo della ragione (opposto a sensibile= che è conosciuto per mezzo dei sensi). L’essere è al tempo stesso ciò che esiste e l’unico oggetto del pensiero.
Il concetto di identità tra pensiero ed essere ricorre spesso nel poema di Parmenide:
“… è infatti la stessa cosa pensare ed essere” (fr. 3)
“La stessa cosa sono il pensare e la cosa pensata.
Infatti senza l’essere, nel quale assume nome, non troverai il pensare” (8, 34-36).
Esso non è l’anticipazione né del “cogito, ergo sum” di Cartesio né della teoria hegeliana secondo la quale il pensiero, l’idea, la ragione si realizzano nella realtà. Parmenide intende affermare, molto più semplicemente, che possiamo pensare solo ciò che esiste, possiamo parlare solo di ciò che esiste. Se pensassimo o parlassimo del non essere, cioè di ciò che non esiste, cioè del nulla, il nostro pensiero ed il nostro discorso sarebbero vacui, sarebbero essi stessi “non essere”.
Il dilemma perpetuato per tanti secoli da molti commentatori se l’essere di Parmenide sia un ente materiale, una sostanza, oppure un ente astratto, un concetto, non ha motivo di esistere.
Nella sua visione unificatrice Parmenide sintetizza nell’essere non soltanto tutte le cose del mondo, bensì anche i concetti.
Dato che possiamo pensare solo ciò che esiste, e dato che tutto ciò che esiste è un’unità assoluta, anche il pensiero è unitario e compreso nell’essere.
Tutti gli enti che appaiono ai nostri occhi (alberi, cavalli, uomini, rocce, nuvole, ecc.) sono manifestazioni dell’essere; e tutti i concetti (di albero, di cavallo, di uomo, di roccia, di nuvola, ecc.) fanno parte dell’essere ed in esso si unificano nel concetto di ente esistente.
Nella sua grandiosa ed arditissima opera di sintesi Parmenide unifica non solo tutte le cose del mondo nell’unico essere, ma anche tutti i concetti delle cose esistenti, cioè tutto il pensiero umano e le scienze ad esso corrispondenti (matematica, geometria, cosmologia, nascente logica, ecc.) nell’unico essere, che è in tal modo ente-sostanza-materia-cosmo e contemporaneamente concetto- pensiero.

Un ente che è esistito, anche se ora non lo percepiamo più, è “essere”, non è nulla. Per esempio, Giulio Cesare è vissuto in una determinata epoca (100-44 a.C.) e poi è morto, ora non lo vediamo più, però è “essere”. Se non fosse mai esistito, sarebbe nulla. Infatti resta la sua essenza costitutiva: la polvere delle sue ossa ormai disperse, le sue opere (“De bello gallico” e “De bello civili”) ed il ricordo delle sue gesta.
v Così anche una persona da noi conosciuta, morta alcuni anni o decenni fa, di cui resta la sostanza costitutiva (le ossa nella tomba, le fotografie, il ricordo nella nostra mente), è “essere”, non è nulla.
Così le “Torri Gemelle” di New York, che certamente non ci sono più, restano nella memoria di chi le ha visitate, restano nelle fotografie e nei filmati, restano nei miliardi di frammenti e di polvere in cui si sono ridotte, sono perciò “essere”:

“non infatti separerà l’essere che si tiene stretto all’essere né quando disperso da per tutto completamente nel cosmo né quando riunito insieme” (4, 2-4)
Infatti la sostanza che permea il corpo dell’uomo che ci appare vivo è la stessa che impregna il corpo dell’uomo che vediamo morto, la sostanza di cui sono formate le Torri Gemelle che percepiamo integre è la stessa che le costituisce quando le vediamo in pezzi: c’è già, qui, in forma embrionale, il concetto di atomo (e di molecola) di cui è composta la sostanza, che verrà compreso e sviluppato da Leucippo e Democrito!
Comprendiamo così come Parmenide, dopo l’iniziale stupore e rifiuto di fronte all’affermazione di Eraclito “la stessa cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio…”, sia riuscito - dopo averne eliminato la per lui inaccetta-bile reversibilità - a razionalizzarla: il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio sono effettivamente la stessa cosa perché la medesima è la loro sostanza costitutiva, la stessa che compone le rocce e l’aria, l’ “essere”, mentre l’apparire giovane o vecchio, desto o dormiente, vivo o morto, sono erronee percezioni dei nostri occhi.

Inoltre, con l’affermazione dell’identità tra essere, pensare e dire, Parmenide intende sostenere con forza che la logica deve avere basi salde, deve poggiare sull’essere, essere costruita su ciò che esiste:
einai (=essere) > noein (=pensare) > léghein (=dire)
Non si può parlare senza prima aver pensato, e pensato su cose reali, non su cose immaginarie o apparenti.
L’essere è la base del pensiero e coincide con esso:
“… senza l’essere… non troverai il pensare” (8, 35-36).
Il concetto deve essere relativo ad una cosa reale, deve essere pregnante, pieno di essere, non vuoto.
Il filosofo di Elea ribadisce più volte lo stretto collegamento tra essere, pensiero e parola: dall’intuizione dell’essere nasce il pensiero, il processo mentale che pensa l’essere e gli attribuisce il nome.



N O T E

(158) “Così appunto secondo l’opinione queste cose nacquero ed ora sono e in seguito da ora in poi dopo essere cresciute moriranno” (19, 1-2).

(159) Aristotele, pur ponendosi in posizione molto equilibrata e quasi equidistante tra gli eleati che affermano che tutto è in quiete e gli eraclitiani che sostengono che tutto è in movimento, accoglie in gran parte le esigenze di Parmenide quando scrive che soltanto la parte di mondo vicina a noi, quella che sperimentiamo da vicino sulla Terra e nelle immediate vicinanze, nella “sfera sublunare”, è soggetta a generazione ed a corruzione; che questa porzione di mondo è minima al confronto degli enormi spazi celesti; che ciò che esiste negli spazi celesti (pianeti, stelle, sfere celesti, Dio, intelligenze motrici dei pianeti) è eterno.
Dio, unico, immobile ed eterno, fa muovere il cielo delle stelle fisse, che è la sfera più esterna, che racchiude l’intero universo. Il cielo delle stelle fisse è eterno come Dio, però si muove di moto circolare. Esistono poi cinquantacinque intelligenze eterne che determinano il movimento dei pianeti. Anche i pianeti sono eterni, però si muovono lungo cinquantacinque sfere circolari, ed anche i loro movimenti sono eterni.
La molteplicità dei pianeti e dei loro movimenti non esclude affatto l’unità dell’universo: unico ed eterno è Dio, unico ed eterno è il cielo delle stelle fisse che circonda e racchiude l’universo, ed unico ed eterno è l’universo. “È evidente che non dicono il vero né coloro i quali affermano che tutto è in quiete, né coloro che dicono che tutto è in movimento” (Aristotele, La Metafisica, IV, 8, 1012 b, p. 210).
“I filosofi che ritengono che l’intelligenza sia sensazione, vedendo che tutta la realtà sensibile è in movimento…hanno esteso le loro osservazioni indiscriminatamente a tutto intero l’universo. Invece, questa regione del mondo sensibile che ci circonda è la sola che si trovi continuamente soggetta a generazione e corruzione; peraltro essa è parte insignificante del tutto” (Ivi, IV, 5, 1009 b - 1010 a, p. 198-201).
“Il Principio e il Primo degli esseri è immobile e produce il movimento primo, eterno ed uno” (Ivi, XII, 8, 1073 a, p. 508).
“Il Motore Primo e immobile è uno per forma e per numero, e uno pertanto è anche ciò che da Lui è mosso sempre ed ininterrottamente. In conclusione, uno è il cielo e uno solo” (Ivi, XII, 8, 1074 a, p. 512).

(160) Alcuni Autori hanno erroneamente ritenuto che Parmenide (515-440 a.C.) fosse contemporaneo di Eraclito (540-480 a.C.), in base alla cronologia di Apollodoro, che sosteneva che Parmenide era nato nel 540-539 a.C. Sono sicuro invece che sia più esatta la cronologia di Platone: egli in ben tre dialoghi (Parmenide, Teeteto, Sofista) afferma che Socrate in giovanissima età conobbe Parmenide. È vero che gli incontri tra filosofi narrati da Platone nei suoi dialoghi sono spesso immaginari. Però certamente il grande filosofo ateniese ha seguito il criterio della verosimiglianza: se l’incontro tra Socrate e Parmenide non è avvenuto nella realtà, esso doveva però poter avvenire.
Infatti Platone non fa mai incontrare nei suoi dialoghi Socrate, suo maestro e protagonista pressoché costante dei dialoghi platonici, con Eraclito - perché sarebbe stato assolutamente impossibile, dato che quando Socrate (469-399 a.C.) nacque, Eraclito era già morto - ma lo fa incontrare con allievi del pensatore efesino, come per esempio con Cratilo nell’omonimo dialogo.

(161) Diels H.-Kranz W., Melisso, pp. 318-319

(162) Ivi, Melisso, p. 318

(163) Se dicessimo: “C’è il nulla”, daremmo dignità di esistenza, dignità ontologica, al nulla, al non essere. Dobbiamo invece dire: “Non c’è nulla”; non essendoci ivi l’essere, ed avendo lo spazio esistente “un limite estremo”, oltre l’essere non c’è niente. Se ci fosse qualcosa, fosse esso pure il nulla, sarebbe anch’esso essere.
“Proprio perché riesce a pensare il senso assoluto del niente, Parmenide consente alla filosofia di pensare ciò che al mito non era stato possibile: il criterio in base al quale si esclude irrevocabilmente che al di là dei confini del Tutto vi sia ancora qualcosa. Al di là del Tutto non esiste alcunché, perché il Tutto è l’essere, e al di là dell’essere non vi è niente…
Anche prima di Parmenide, nel mito greco e nei grandi testi della saggezza orientale, si parla del ‘Tutto’ e della ‘Totalità delle cose’, ma, come accade per il chaos di Esiodo, se il pensiero va sì rivolgendosi all’immenso (ossia a ciò che non ha misura), d’altra parte non può escludere che al di là di esso si estendano altri mondi e altri universi… Percorrendo gli estremi confini del Tutto, il pensiero, con Parmenide, riesce a vedere che al di là di essi non c’è niente” (Severino E., La filosofia antica, p. 49).




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