Che cos'è l'essere di Parmenide:
spiegazione di un enigma filosofico
(pagine 95-105)
IL RAGIONAMENTO DI PARMENIDE
Entrare nella testa di Parmenide
Studiando di continuo lo scritto di Parmenide, avverto la sensazione,
frustrante e al tempo stesso stimolante - che credo tutti
gli studiosi del poema abbiano provato -, che l’“essere” del filosofo
di Elea sia inafferrabile. Più lo inseguo, più mi sfugge.
Paradossalmente questo “essere”, che Parmenide concepisce come
stabile ed immobile, ci sfugge letteralmente dalle mani. Il problema
è sempre lo stesso: è oggetto o è concetto?
Dopo tanti sforzi e meditazioni credo però di essere riuscito a
ricostruire l’intero ragionamento del filosofo eleate e di essere in
un certo senso “entrato nella sua testa”.
Immagino Parmenide che, in una mattina di primavera degli
anni ’70 del V secolo a.C., sale sull’altura dell’acropoli di Elea: da
una parte guarda le colline, gli alberi, il mare ed il cielo che si toccano
all’orizzonte, barche sul mare, pescatori dediti alla loro attività;
volgendo poi lo sguardo verso la città, osserva il tempio, le
case, le persone.
Il tarlo nella sua testa è la teoria di Eraclito, a causa della
quale, dato che tutte le cose cambiano, nessuna di esse è realmente
esistente, l’essere e il non essere sono la stessa cosa e non la
stessa cosa, e pertanto nessuna cosa è conoscibile.
Allora Parmenide riflette sul fatto che in autunno le foglie
verdi degli alberi diventeranno gialle e rosse e marroni e poi
cadranno a terra e moriranno, tra alcuni anni o secoli le persone,
le case, lo stesso tempio cambieranno ed infine saranno distrutti
dal tempo (158) , sul mare ci saranno altre barche ed altri uomini, non
gli stessi di oggi; però il cielo ci sarà sempre: il cosmo esiste stabilmente,
esso è eterno e fermo. Rapito in questa contemplazione
dell’universo, Parmenide comincia a pensare che tutto, essendo
parte del cosmo, sia eterno, che tutto si conservi per sempre, e
dunque estende il concetto di eternità e di immobilità dal cielo al
substrato unico e permanente che secondo la sua concezione permea
tutte le cose che percepiamo più vicine a noi e pensa che i
nostri organi di senso, che ce le mostrano molteplici, mutevoli e
caduche, siano fallaci (159) .
L’essere è
Sono convinto che Parmenide scrisse il poema in contrapposizione
all’affermazione di Eraclito (160) : “Tutto diviene, nulla è”.
Parmenide avverte la stridente contraddizione tra i due termini
della frase “nulla è” e si chiede: se nulla esiste, come mai noi
abbiamo nella nostra mente il concetto di “è”?
Egli riflette: se usiamo il verbo “è”, significa che nella nostra
mente c’è il concetto di esistenza; dunque - dato che “è la stessa
cosa pensare ed essere” (fr. 3), “la stessa cosa sono il pensare e la
cosa pensata” (8, 34), “se non esistesse, non potresti conoscerlo
né esprimerlo” (2, 7-8) - se abbiamo nella nostra mente il concetto
di esistenza, qualcosa deve realmente esistere: “l’essere è” (2,3;
6,1), “niente affatto non è” (6,2).
Se il pensiero è pensiero dell’essere, se “senza l’essere… non
troverai il pensare” (8, 35-36), dato che il pensiero esiste ed esiste
il pensiero dell’essere, qualcosa deve necessariamente esistere.
Quindi, al verbo “essere” (einai), che esprime l’esistenza, non
può essere associata la parola “nulla”, ad esso deve essere associato
il termine che indica ciò che esiste, l’esistente (“on”; nel dialetto
ionico, usato da Parmenide, “eon”). Da qui tutta la serie di
frasi imperniate sui vari modi della coniugazione del verbo essere,
tanto da sembrare giochi di parole: “opwV esti” (“che è”: 2,3),
“eon emmenai” (“che l’essere è”: 6,1), “esti gar einai” (“è infatti
essere”: 6,1), “wV estin” (“che è”: 8,2).
L’essere esiste sempre
Questo qualcosa che deve necessariamente esistere, per essere
caratterizzato dal verbo “è”, deve esistere sempre, altrimenti diremmo:
“è stato” oppure “sarà”. Se è stato o sarà, si perderebbe
la peculiarità dell’ “è”: l’“è”, la cosa che è, l’ente, l’esistente (on),
non solo deve esistere, ma deve esistere sempre, non nasce e non
muore: “è non generato e imperituro… così la nascita è spenta e
la morte è ignota” (8, 3-21), “se nacque non è, né è se si appresta
ad essere” (8, 20).
Però potrebbe anche verificarsi che esista sempre qualcosa,
ma cose sempre diverse (come per esempio, nel genere umano,
persone sempre diverse si susseguono nel tempo, prima il bisnonno,
poi il nonno, poi il padre, poi il figlio, ecc., cosicché c’è sem-pre
qualcuno). Ciò però non ci fornirebbe la garanzia dell’essere
sempre esistente, perché ci potrebbe essere una interruzione delle
successive nascite o delle continue trasformazioni degli enti contingenti.
La garanzia della presenza costante di qualcosa di esistente ci è invece
assicurata soltanto dalla esistenza di un essere
eterno, indistruttibile, “necessario”, cioè che esiste necessariamente,
cioè che non può non essere.
L’essere è uno
Perché una cosa esista sempre, deve non essere soggetta a
nascita e morte, ma deve anche non trasformarsi: “rimanendo
identico nel medesimo luogo” (8, 29), “Se si trasforma, deve perire
ciò che prima era e ciò che non è deve nascere: ecco che l’essere
perì e il non essere nacque”(161) , “Se l’essere mutasse anche solo
di un capello in diecimila anni, andrebbe interamente distrutto in
tutta la durata dei tempi”(162).
Inoltre, deve essere immobile, perché anche il movimento è
una trasformazione, cambiamento di luogo; deve essere continuo,
omogeneo e non diviso, altrimenti in mezzo ad esso si interporrebbe
il non essere, che non può esistere; è compiuto, perché se
non lo fosse, tenderebbe a diventarlo e dunque dovrebbe modificarsi
per passare dallo stato di incompiutezza a quello perfetto
della compiutezza, nel quale invece si trova già.
Ora, è forse possibile che tutte le molteplici cose che vediamo
quotidianamente non nascano, non si trasformino, non cambino
luogo e colore, non muoiano? Certamente no! Allora l’essere
deve essere uno.
Perché?
La filosofia di Eraclito era stata interpretata dai suoi contemporanei
come la dottrina del “tutto diviene, nulla è”. Come S.
Agostino affermerà, a proposito del tempo, che esso non esiste, in
quanto il passato non è più, il futuro non è ancora e il presente
diventa subito passato, così Eraclito sostiene che il mondo non
esiste, ma consiste in una continua trasformazione.
Parmenide è un pitagorico, un conservatore: la trasformazione
vorticosa degli enti descritta da Eraclito è per lui un marasma
inaccettabile.
Egli, osservando le stelle, il sole, la luna, il mare e le montagne,
pensa che essi siano rimasti uguali a mille ed a un milione di anni
prima. Pensa che, non essendosi modificato, l’essere, ciò che è,
ciò che esiste, il cosmo, sia eterno. Così egli enuncia un principio
che rimarrà costante nel pensiero greco: il mondo è eterno.
Aristotele affermerà che sia il mondo che il movimento delle sfere
celesti sono eterni.
Allora Parmenide ritiene di dover cercare la motivazione dell’eternità
del mondo.
Quale ragionamento logico ha seguito il filosofo di Elea per
dimostrare che l’essere esiste sempre? Egli ha ritenuto essenziale
che l’essere fosse uno e non molti.
Se gli enti fossero molti, o uno deriverebbe dall’altro oppure
ognuno sarebbe indipendente dagli altri.
Se ognuno nasce dall’altro (sia che il primo sia nato che non
nato), dato che ciò che nasce è destinato a morire, essi vanno gradualmente
verso la morte, verso il non essere (quindi, indicando
ogni singolo ente con un numero):
nascita > 1 > 2 > 3 > 4 > 5 > 6 > 7 > n > morte
non nato 1 > 2 > 3 > 4 > 5 > 6 > 7 > n > morte
Se ogni ente è indipendente dagli altri, ma diviene, è destinato a
morire:
nascita > 1 > morte
nascita > 2 > morte
nascita > 3 > morte
.............
.............
Se ognuno dei molteplici enti non diviene, non nasce e non
muore, qual è il rapporto tra di essi? Se ognuno non può trasformarsi
nell’altro, da dove provengono essi tutti? Da uno di essi? O
dal non essere?
Se fossero molti, afferma Parmenide, se uno di essi è l’essere,
gli altri sono non essere. Inoltre, se gli esseri fossero molti, tra di
essi si interporrebbe il non essere. Ma ciò è impossibile perché il
non essere non può esistere. Perciò l’essere è uno.
Se l’essere è uno, o è fermo o è mosso. Ma se è mosso diviene,
se diviene va verso la morte, verso il nulla, verso il non essere, e
allora prima o poi non esisterà più nulla. Inoltre, per muoversi,
l’essere dovrebbe muoversi nel non essere; ma, come già detto, il
non essere non può esistere e non può neppure essere pensato.
Perciò l’essere è uno, stabile e fermo.
Se l’essere è uno, o esso nasce e muore, e allora prima e dopo
di lui non ci sarebbe nulla - il che secondo Parmenide non è concepibile
-, oppure esso non nasce e non muore.
Perciò l’essere è uno, non nasce e non muore ed è eterno.
L’essere è concetto e cosmo
Ma che cos’è dunque questo “essere” di Parmenide? è un concetto
logico? è una divinità? è il cosmo?
Credo che Parmenide sia partito dal ragionamento logico che
ho esposto e poi abbia compiuto la fusione tra concetto logico e
cosmo, tra pensiero ed essere, tra pensare e cosa pensata.
Così nel corso del frammento 8 l’essere-concetto assume gradualmente
l’aspetto dell’essere-oggetto-cosmo. Così vediamo che
esso mostra di avere una consistenza fisica:
“Non infatti separerà l’essere che si tiene stretto all’essere né
quando disperso da per tutto completamente nel cosmo né quando
riunito insieme”(4, 2-4)
“Né è diviso, poiché è tutto uguale: né c’è in qualche parte un
di più di essere che possa impedirgli di essere unito, né un di
meno, ma è tutto pieno di essere. Perciò è tutto continuo: l’essere
infatti si accosta all’essere” (8, 22-25)
“Ma poiché c’è un limite estremo, è limitato, da ogni parte simile
a massa di ben rotonda sfera, dal centro uguale in ogni parte”
(8, 42-44)
“Fin là infatti da ogni parte uguale, in modo uguale viene a
contatto con i confini” (8, 49).
Inoltre l’essere è grande, contenuto “nei limiti di grandi legami”
(8, 26).
Ma allora, l’essere di Parmenide è il cosmo?
Nel fr. 4 sembrerebbe che non sia così: “non infatti separerà
l’essere che si tiene stretto all’essere né quando disperso da per
tutto completamente nel cosmo né quando riunito insieme”(4, 2-4).
Qui l’essere e il cosmo sembrano due entità diverse, l’una il
contenuto, l’altra il contenente.
Secondo Parmenide il cosmo è tutto lo spazio esistente, ed ha
la forma di una enorme sfera.
L’essere, l’esistente, ciò che esiste, riempie il cosmo, “viene a
contatto con i confini” (8, 49). L’essere è ciò che esiste nel
cosmo; l’essere comprende tutto ciò che esiste, manifestandosi ai
mortali sotto le forme di cose, animali, uomini, pensieri umani,
sole, luna, astri.
Dato che l’essere riempie tutto lo spazio disponibile, oltre
all’essere non c’è nient’altro, perciò il non essere e il vuoto non
esistono.
Dunque, il cosmo è lo spazio, l’essere è un corpo omogeneo
che riempie tutto lo spazio; ma non esistendo il non essere e il
vuoto all’interno né dell’essere né del cosmo, e riempiendo l’essere
tutto il cosmo, l’essere coincide con il cosmo.
Nel fr. 8 il concetto viene chiarito meglio.
La Divinità (“la dura Necessità”) impone un limite (“peiras”)
all’estensione spaziale dell’essere rinchiudendolo intorno con
grandi legami (8, 26; 8, 30-31; 8, 42). L’essere, enorme e sferico,
viene a contatto con questi confini impostigli (8, 49).
L’essere costituisce il cosmo e riempie tutto lo spazio cosmico
concesso dalla Legge Divina, coincidendo in tal modo con esso.
La superficie esterna dell’essere costituisce il confine del cosmo,
pertanto al di fuori di esso - non esistendo altro spazio disponibile
- non esiste null’altro.
All’epoca di Parmenide, ritenendo la maggior parte dei pensatori
che il cosmo fosse spazialmente limitato, c’era una discussione
tra i filosofi-cosmologi su cosa ci fosse attorno ad esso: ci sono
altri mondi? c’è il vuoto? c’è il nulla?
Parmenide risolve il problema con una risposta, come sempre,
categorica: al di fuori e al di là e intorno all’essere non c’è
niente (163) , perché l’essere riempie tutto lo spazio esistente e perché
il niente e il vuoto non esistono: tutto il mondo e tutto ciò
che è pensabile coincidono con l’essere: “è tutto pieno di essere”
(8, 24). Tutto lo spazio esistente è riempito dall’essere; esiste soltanto
l’essere e perciò si può pensare soltanto l’essere.
Identità di pensiero ed essere
Eraclito aveva sostenuto che nulla esiste stabilmente.
Lo scopo di Parmenide è affermare che l’essere esiste stabilmente.
Poiché il pensare - secondo il filosofo di Elea - coincide con la
cosa pensata, con l’essere, poiché possiamo pensare solo ciò che esiste,
se pensiamo che l’essere esiste, esso realmente esiste.
Se mi metto a pensare, posso pensare solo ciò che esiste, perché
la mente non commette errori. Se penso, penso l’essere,
penso che è, che esiste: il pensiero è pensiero dell’essere, non
può essere pensiero di nulla, di non essere, di ciò che non esiste.
Se invece vedo o odo una cosa, gli occhi e le orecchie, essendo fallaci, possono involontariamente trarmi in errore e farmi vedere
come enti molteplici quelle che in realtà sono manifestazioni di un
unico essere.
Secondo Parmenide la mente umana, se si lascia guidare dai
sensi, viene fuorviata nel seguente modo: l’essere umano vede una
cosa, percependola la conosce e quindi la pensa come cosa esistente
e dunque le conferisce un nome.
Solo la mente divina comprende la vera realtà.
Il perverso meccanismo di moltiplicazione degli enti da parte degli
esseri umani
Quindi Parmenide afferma che il meccanismo utilizzato dai
mortali è errato. Essi vedono delle cose con “l’occhio che non
osserva”, odono dei suoni con “l’orecchio rimbombante”, ascoltano
le voci prodotte dalla lingua degli altri uomini, li percepiscono,
li conoscono, li pensano e quindi attribuiscono loro un nome che
li distingua l’uno dall’altro.
I mortali, fin dall’antichità, hanno cominciato a percepire i
molteplici aspetti apparenti del reale, le molteplici manifestazioni
dell’essere, le forme che esso assume ai loro occhi, e li hanno
denominati uno ad uno.
Se invece avessero avuto intelligenza divina, avrebbero compreso
che la sostanza sottostante a queste manifestazioni apparentemente
numerose e cangianti è unica ed immutabile, è l’essere.
Quindi, non bisogna fidarsi della vista, dell’udito e della lingua,
ma solo del ragionamento.
Se utilizziamo la ragione, dobbiamo concludere che l’essere è
uno.
L’origine dell’errore dei mortali
L’essere è dunque uno solo. Gli esseri umani cominciarono ad
errare quando ritennero di distinguere nell’essere due entità, la
luce e la tenebra; poi distinsero la terra e l’aria, l’acqua e il fuoco,
il sole e la luna, la volta celeste e gli astri che vi sono “appesi”, poi
il curvo ed il retto, il fermo e il mosso, il bene e il male, poi il maschio
e la femmina, il giovane e il vecchio, lo sveglio e il dormiente,
il vivo e il morto.
Tutte queste differenziazioni non sono entità reali, bensì sono
manifestazioni dell’unico “essere” che è concetto-pensiero/ente-oggetto-
cosmo.
A causa dell’errore degli uomini “a questo unico essere saranno
attribuiti tanti nomi quante sono le cose che i mortali proposero,
credendo che fossero vere, che nascessero e perissero, che esistessero
e non esistessero, che cambiassero luogo e mutassero
luminoso colore” (8, 39-42).
L’essere, che è uno, che però ai sensi umani appare diviso in
molteplici oggetti, ridiventa uno agli occhi della mente, della
ragione: “Guarda come cose lontane sono saldamente presenti
alla mente: non infatti separerà l’essere che si tiene stretto all’essere
né quando disperso da per tutto completamente nel cosmo né
quando riunito insieme” (4, 1-4); “né l’abitudine esperimentata ti
spinga lungo questa via, a dirigere l’occhio che non osserva e l’orecchio
rimbombante e la lingua, ma giudica con la ragione la
molto combattuta prova da me esposta” (7, 3-6).
“LA STESSA COSA SONO IL PENSARE
E LA COSA PENSATA” (8,34)
Il dubbio millenario sul significato dell’essere di Parmenide, se
esso cioè sia il concetto logico astratto di essere oppure un
oggetto-corpo-sostanza-cosmo è chiarito dalla celeberrima frase:
“la stessa cosa sono il pensare e la cosa pensata”. L’essere di
Parmenide è quindi la sostanza corporea unitaria del mondo e
contemporaneamente il concetto logico di essere esistente.
Essendo oggetto del pensiero, l’essere, oltre che una realtà fisica,
è una realtà intelligibile, cioè che viene conosciuta per mezzo
della ragione (opposto a sensibile= che è conosciuto per mezzo
dei sensi). L’essere è al tempo stesso ciò che esiste e l’unico
oggetto del pensiero.
Il concetto di identità tra pensiero ed essere ricorre spesso nel
poema di Parmenide:
“… è infatti la stessa cosa pensare ed essere” (fr. 3)
“La stessa cosa sono il pensare e la cosa pensata.
Infatti senza l’essere, nel quale assume nome, non troverai il
pensare” (8, 34-36).
Esso non è l’anticipazione né del “cogito, ergo sum” di
Cartesio né della teoria hegeliana secondo la quale il pensiero, l’idea,
la ragione si realizzano nella realtà. Parmenide intende affermare,
molto più semplicemente, che possiamo pensare solo ciò
che esiste, possiamo parlare solo di ciò che esiste. Se pensassimo o
parlassimo del non essere, cioè di ciò che non esiste, cioè del
nulla, il nostro pensiero ed il nostro discorso sarebbero vacui,
sarebbero essi stessi “non essere”.
Il dilemma perpetuato per tanti secoli da molti commentatori
se l’essere di Parmenide sia un ente materiale, una sostanza, oppure
un ente astratto, un concetto, non ha motivo di esistere.
Nella sua visione unificatrice Parmenide sintetizza nell’essere
non soltanto tutte le cose del mondo, bensì anche i concetti.
Dato che possiamo pensare solo ciò che esiste, e dato che tutto
ciò che esiste è un’unità assoluta, anche il pensiero è unitario e
compreso nell’essere.
Tutti gli enti che appaiono ai nostri occhi (alberi, cavalli, uomini,
rocce, nuvole, ecc.) sono manifestazioni dell’essere; e tutti i
concetti (di albero, di cavallo, di uomo, di roccia, di nuvola, ecc.)
fanno parte dell’essere ed in esso si unificano nel concetto di ente
esistente.
Nella sua grandiosa ed arditissima opera di sintesi Parmenide
unifica non solo tutte le cose del mondo nell’unico essere, ma
anche tutti i concetti delle cose esistenti, cioè tutto il pensiero
umano e le scienze ad esso corrispondenti (matematica, geometria,
cosmologia, nascente logica, ecc.) nell’unico essere, che è in
tal modo ente-sostanza-materia-cosmo e contemporaneamente concetto-
pensiero.
Un ente che è esistito, anche se ora non lo percepiamo più, è
“essere”, non è nulla.
Per esempio, Giulio Cesare è vissuto in una determinata epoca
(100-44 a.C.) e poi è morto, ora non lo vediamo più, però è “essere”.
Se non fosse mai esistito, sarebbe nulla. Infatti resta la sua
essenza costitutiva: la polvere delle sue ossa ormai disperse, le sue
opere (“De bello gallico” e “De bello civili”) ed il ricordo delle
sue gesta.
v
Così anche una persona da noi conosciuta, morta alcuni anni o
decenni fa, di cui resta la sostanza costitutiva (le ossa nella tomba,
le fotografie, il ricordo nella nostra mente), è “essere”, non è
nulla.
Così le “Torri Gemelle” di New York, che certamente non ci
sono più, restano nella memoria di chi le ha visitate, restano nelle
fotografie e nei filmati, restano nei miliardi di frammenti e di polvere
in cui si sono ridotte, sono perciò “essere”:
“non infatti separerà l’essere che si tiene stretto all’essere né quando disperso
da per tutto completamente nel cosmo né quando riunito insieme” (4, 2-4)
Infatti la sostanza che permea il corpo dell’uomo che ci appare
vivo è la stessa che impregna il corpo dell’uomo che vediamo
morto, la sostanza di cui sono formate le Torri Gemelle che percepiamo
integre è la stessa che le costituisce quando le vediamo in
pezzi: c’è già, qui, in forma embrionale, il concetto di atomo (e di
molecola) di cui è composta la sostanza, che verrà compreso e sviluppato
da Leucippo e Democrito!
Comprendiamo così come Parmenide, dopo l’iniziale stupore
e rifiuto di fronte all’affermazione di Eraclito “la stessa cosa sono
il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio…”,
sia riuscito - dopo averne eliminato la per lui inaccetta-bile
reversibilità - a razionalizzarla: il vivente e il morto, lo sveglio
e il dormiente, il giovane e il vecchio sono effettivamente la stessa
cosa perché la medesima è la loro sostanza costitutiva, la stessa
che compone le rocce e l’aria, l’ “essere”, mentre l’apparire giovane
o vecchio, desto o dormiente, vivo o morto, sono erronee percezioni
dei nostri occhi.
Inoltre, con l’affermazione dell’identità tra essere, pensare e
dire, Parmenide intende sostenere con forza che la logica deve
avere basi salde, deve poggiare sull’essere, essere costruita su ciò
che esiste:
einai (=essere) > noein (=pensare) > léghein (=dire)
Non si può parlare senza prima aver pensato, e pensato su
cose reali, non su cose immaginarie o apparenti.
L’essere è la base del pensiero e coincide con esso:
“… senza l’essere… non troverai il pensare” (8, 35-36).
Il concetto deve essere relativo ad una cosa reale, deve essere
pregnante, pieno di essere, non vuoto.
Il filosofo di Elea ribadisce più volte lo stretto collegamento
tra essere, pensiero e parola: dall’intuizione dell’essere nasce il
pensiero, il processo mentale che pensa l’essere e gli attribuisce il
nome.
N O T E
(158) “Così appunto secondo l’opinione queste cose nacquero ed ora sono e
in seguito da ora in poi dopo essere cresciute moriranno” (19, 1-2).
(159) Aristotele, pur ponendosi in posizione molto equilibrata e quasi equidistante
tra gli eleati che affermano che tutto è in quiete e gli eraclitiani che
sostengono che tutto è in movimento, accoglie in gran parte le esigenze di
Parmenide quando scrive che soltanto la parte di mondo vicina a noi, quella che
sperimentiamo da vicino sulla Terra e nelle immediate vicinanze, nella “sfera
sublunare”, è soggetta a generazione ed a corruzione; che questa porzione di
mondo è minima al confronto degli enormi spazi celesti; che ciò che esiste negli
spazi celesti (pianeti, stelle, sfere celesti, Dio, intelligenze motrici dei pianeti) è
eterno.
Dio, unico, immobile ed eterno, fa muovere il cielo delle stelle fisse, che è
la sfera più esterna, che racchiude l’intero universo. Il cielo delle stelle fisse è
eterno come Dio, però si muove di moto circolare. Esistono poi cinquantacinque
intelligenze eterne che determinano il movimento dei pianeti. Anche i pianeti
sono eterni, però si muovono lungo cinquantacinque sfere circolari, ed
anche i loro movimenti sono eterni.
La molteplicità dei pianeti e dei loro movimenti non esclude affatto l’unità
dell’universo: unico ed eterno è Dio, unico ed eterno è il cielo delle stelle fisse
che circonda e racchiude l’universo, ed unico ed eterno è l’universo.
“È evidente che non dicono il vero né coloro i quali affermano che tutto è
in quiete, né coloro che dicono che tutto è in movimento” (Aristotele, La
Metafisica, IV, 8, 1012 b, p. 210).
“I filosofi che ritengono che l’intelligenza sia sensazione, vedendo che tutta
la realtà sensibile è in movimento…hanno esteso le loro osservazioni indiscriminatamente
a tutto intero l’universo. Invece, questa regione del mondo sensibile
che ci circonda è la sola che si trovi continuamente soggetta a generazione e corruzione; peraltro essa è parte insignificante del tutto” (Ivi, IV, 5, 1009 b - 1010 a,
p. 198-201).
“Il Principio e il Primo degli esseri è immobile e produce il movimento
primo, eterno ed uno” (Ivi, XII, 8, 1073 a, p. 508).
“Il Motore Primo e immobile è uno per forma e per numero, e uno pertanto
è anche ciò che da Lui è mosso sempre ed ininterrottamente. In conclusione,
uno è il cielo e uno solo” (Ivi, XII, 8, 1074 a, p. 512).
(160) Alcuni Autori hanno erroneamente ritenuto che Parmenide (515-440
a.C.) fosse contemporaneo di Eraclito (540-480 a.C.), in base alla cronologia di
Apollodoro, che sosteneva che Parmenide era nato nel 540-539 a.C. Sono sicuro
invece che sia più esatta la cronologia di Platone: egli in ben tre dialoghi
(Parmenide, Teeteto, Sofista) afferma che Socrate in giovanissima età conobbe
Parmenide. È vero che gli incontri tra filosofi narrati da Platone nei suoi dialoghi
sono spesso immaginari. Però certamente il grande filosofo ateniese ha
seguito il criterio della verosimiglianza: se l’incontro tra Socrate e Parmenide
non è avvenuto nella realtà, esso doveva però poter avvenire.
Infatti Platone non fa mai incontrare nei suoi dialoghi Socrate, suo maestro
e protagonista pressoché costante dei dialoghi platonici, con Eraclito - perché
sarebbe stato assolutamente impossibile, dato che quando Socrate (469-399
a.C.) nacque, Eraclito era già morto - ma lo fa incontrare con allievi del pensatore
efesino, come per esempio con Cratilo nell’omonimo dialogo.
(161) Diels H.-Kranz W., Melisso, pp. 318-319
(162) Ivi, Melisso, p. 318
(163) Se dicessimo: “C’è il nulla”, daremmo dignità di esistenza, dignità ontologica,
al nulla, al non essere. Dobbiamo invece dire: “Non c’è nulla”; non
essendoci
ivi l’essere, ed avendo lo spazio esistente “un limite estremo”, oltre
l’essere non c’è niente. Se ci fosse qualcosa, fosse esso pure il nulla, sarebbe
anch’esso essere.
“Proprio perché riesce a pensare il senso assoluto del niente, Parmenide
consente alla filosofia di pensare ciò che al mito non era stato possibile: il criterio
in base al quale si esclude irrevocabilmente che al di là dei confini del Tutto
vi sia ancora qualcosa. Al di là del Tutto non esiste alcunché, perché il Tutto è
l’essere, e al di là dell’essere non vi è niente…
Anche prima di Parmenide, nel mito greco e nei grandi testi della saggezza
orientale, si parla del ‘Tutto’ e della ‘Totalità delle cose’, ma, come accade per il
chaos di Esiodo, se il pensiero va sì rivolgendosi all’immenso (ossia a ciò che
non ha misura), d’altra parte non può escludere che al di là di esso si estendano
altri mondi e altri universi… Percorrendo gli estremi confini del Tutto, il pensiero,
con Parmenide, riesce a vedere che al di là di essi non c’è niente”
(Severino E., La filosofia antica, p. 49).
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